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Per una storia delle teorie estetiche:

da Platone al neoidealismo italiano

 

Manlio Tummolo

 

“Del Furore Poetico” e “Della Bellezza” in Platone

 

                                                                       

 

Da tempo meditavo un argomento degno di un’iniziativa di alto contenuto e di raffinata impostazione.

Generalmente, io mi occupo poco di temi letterari ed artistici, non perché li consideri di scarsa importanza (anzi...), ma perché mi distoglievano impegni più pressanti ed anche la difficoltà di trovare siti di buon livello, che non ripetano le solite trite esaltazioni di un'epoca come l’attuale, da dove l'Arte ha dovuto da decenni emigrare, e dove la pura volgarità e la descrizione monotona di atti sessuali di vario tipo fanno da padrone nella letteratura, col pretesto di un culto della "realtà", che altro non è se non il livello infimo della realtà stessa. Se i virus e le tossine potessero scrivere romanzi, novelle o versificazioni, non scriverebbero certamente in modo granché diverso da quello che da decenni ha trionfato. Nessuno dubita che esistano o possano esistere certi fatti e certi fenomeni e che questi siano anche comunissimi: il problema è vedere se esistano solo quelli, oppure se meriti descriverli con tanto minuzioso interesse come vien fatto oggi .

Questo si pone come un'antitesi a questo modo di concepire l'Arte e la Bellezza, e si presenta come uno strumento raffinato di espressione di cultura che unisca, con tematiche di tipo spirituale ed ideale, il Bello al Vero e stimoli un'idea di Bellezza come espressione della spiritualità. Di qui il mio interesse verso il sito e di qui il mio desiderio di collaborare, sia pure non da specialista, ma da persona che in ogni modo apprezza ed ama una concezione dell'arte, che rinnovi e migliori, e non denigri e sottovaluti, la Tradizione, rifiutando il culto del Nuovo per il Nuovo, che si è andato trasformando in un culto del Brutto per il Brutto. La “novità” è concetto relativo, non assoluto, costituisce una dimensione temporale ed apparente, non una dimensione reale. Ciò che per me è nuovo (perché prima non l'avevo mai visto o sentito), è vecchio per molti altri. Il nuovo, tale per un bambino, per il quale ovviamente tutto appare nuovo ed incantevole, è vecchio e noioso per un adulto. Il termine "nuovo" ricorda assai quelle etichette che si mettono a certi dizionari che le conservano anche quando sono ridotti a brandelli...

La Bellezza è principio e concetto universale, in sé e per sé uguale, malgrado lo scorrere del tempo, e malgrado la varietà e variabilità delle sue forme. Il rinnovamento di una concezione estetica deve, pertanto, avvenire nel solco della continuità, costituire un perfezionamento, non una devastazione o un annullamento delle precedenti concezioni estetiche. L'idea di potersi liberare dal principio, per sostituirlo con un mezzo, sarebbe come confondere l'idolo, la statuina, con l'idea di Dio o della divinità in sé. Ma ancor più dell'idolatria, il culto del Nuovo in sé, che sostituisca il Bello, finisce per cadere in una contraddizione assoluta:

ogni nuovo, ripetuto piu di due volte, diventa "vecchio" e, dopo, che cosa resta ? Un idolatra può ancora credere che la sua statuina compia miracoli, che il suo talismano gli procuri fortuna e benessere; ma ad un artista, ad uno studioso dell'estetica, che cosa rimane quando si accorge che il suo stile "rinnovatore" si è ormai invecchiato e banalizzato? Neppure quel minimo di fede, che l' idolatra puo mantenere; gli resta soltanto qualcosa di mediocre, di brutto, talvolta di volgare o d'orrendo, non certo un'opera d'arte.

Di qui l'esigenza di riabilitare le antiche concezioni estetiche che univano il Bello al Buono e al Vero, certamente non con rigidezza di stile o di forma, ma con libertà espressiva, libertà che deve essere consapevolezza dei limiti e consapevolezza dei mezzi e delle forme, che possono variare, ma assolutamente senza sconfinare in una licenza, in una anomia (quale ribellione pregiudiziale ad ogni regola), che eliminano o nascondono il Bello.

Sulla base di questi principi, mi propongo cosi di ripercorrere alcune tra le fondamentali concezioni di filosofia estetica che hanno caratterizzato la storia europea, a partire da Platone, che è il primo di cui ci rimangano scritti completi sull'argomento. Così esaminerò, nel presente articolo, i due dialoghi "Jone o del Furore Poetico" e "Fedro ovvero Della Bellezza".

 

Com'è ben noto, il genere letterario, insieme artistico e filosofico, che Platone adotta per esprimere il suo pensiero è il dialogo. In esso, quasi sempre, Socrate, di cui Platone fu allievo (non tuttavia senza influenze parmenidee e pitagoriche, che anzi furono notevoli nella pars construens del suo pensiero), è il protagonista che esprime, in modo critico e maieutico, le idee dell'Autore. Va ricordato, sia pure di passaggio, che proprio questo continuo accostamento tra il proprio ed il pensiero socratico ha costituito la maggior difficoltà per gli storici della filosofia nell'individuazione esatta di quanto appartiene propriamente a Socrate e di quanto appartiene a Platone. Sicuramente, la pars destruens (intesa in senso critico, ma non scettico) appartiene propriamente a Socrate, che gliel'aveva insegnata, in modo non cosi diverso dal criticismo o razionalismo protagoreo e gorgiano come potrebbe sembrare, se ci si limitasse alla narrazione platonica. La ricerca della verità, la ricerca della definizione concettuale di un principio, al di là dei puri nominalismi (che, viceversa, caratterizzava la peggiore sofistica e certe scuole post-socratiche), senza pretese di raggiungere tale Verità in modo immediato e senza un lavoro di approfondimento, di scavo intellettuale, erano tipiche di quella metodologia socratica I contenuti, le specifiche conclusioni, appartengono a Platone, o come rielaborazioni, attraverso il filtro socratico, del pensiero parmenideo e pitagorico; o come idee originali acquisite dalla sua medesima ricerca. Era necessario chiarire, sia pure brevemente, questo punto per evitare facili confusioni tra pensiero socratico (che è analitico) e pensiero platonico (che è piuttosto deduttivo e sintetico) .

Passo ora all'analisi del dialogo "Jone" (1): Jone è un rapsodo, ovvero cantore, tipico della prima letteratura ellenica, che incontra Socrate dopo aver vinto una gara poetica ad Epidauro, dedicata al Dio Esculapio.

"SOCRATE: Spesse volte io ho invidiato voi rapsodi, o Jone, per l'arte vostra: imperocché quello aver sempre a essere ornati della persona, sì da fare un assai bel vedere, come a voi si conviene, e quello aver sempre la mano in molti poeti e buoni, specialmente in Omero... e intendere, non che le parole, il suo sentimento; ché, sai,... il rapsodo dee essere ai suoi uditori lo interprete del poeta, e non può, se non l'intende; tutto ciò degno veramente è d'invidia "(2).

Socrate, cosi, imposta già il problema dell'arte: essere espressione di bellezza, di decoro, di fedele interpretazione. Già in poche righe l'Arte viene chiarita come sintesi di Bellezza e di Verità. Jone trova, da quelle parole, un' occasione per vantarsi, come il miglior interprete recitatore di Omero, superiore a Metrodoro, Stesimbroto e Glaucone. Sorge poi un'altra questione, se Jone fosse o non fosse altrettanto buon interprete di Esiodo. Secondo Jone stesso, egli recita Esiodo bene come lo stesso Omero, quando idee e contenuti sono simili. Seguono allora le obiezioni di Socrate, per il quale, allora, Jone è ottimo interprete di Omero per la superiorità dello stesso Omero sugli altri poeti; ma, per Socrate, i contenuti dei poemi omerici (battaglie, guerre, discussioni e fatti quotidiani o miracolosi) sono presenti anche nelle opere di altri scrittori: or dunque, quale differenza spinge Jone a recitare meglio i versi del primo rispetto agli altri?

"SOCRATE: E che? non cantarono gli altri poeti di queste medesime cose?

JONE : Si, ma non come Omero.

SOCRATE : Che ? peggio ?

JONE: D'assai.

SOCRATE: E Omero meglio?

JONE : Meglio, per Giove ..." (3) .

Socrate allora comincia a chiedergli chi sia colui che, in un gruppo determinato di persone, ragiona con esattezza in determinate scienze, quali l'aritmetica, la medicina, o altro, costringendo Jone a riconoscere che chi ragiona bene, rispettivamente in ciascuna delle varie scienze, è in grado di giudicare chi nello stesso gruppo ragiona male. Cosi chiede a Jone chi, fra i grandi poeti sia piu bravo e chi meno, e se Omero superi Esiodo o Archiloco. Ma, subito dopo, tenta di fargli asserire che, essendo Jone stesso in grado di giudicare chi sia il migliore tra i poeti, egli stesso si pone come giudice ed esperto di poesia. Jone cerca, allora, di contrattaccare, e chiede a Socrate come mai allora egli (Jone stesso) rischi di addormentarsi leggendo altri poeti, mentre, leggendo Omero, si risvegli ed apra la propria mente alle sue descrizioni.

"SOCRATE: La ragione, o amico, non è forte [difficile] cosa a trovare; però ch'egli è palese a ogni uomo che per arte e scienza non puoi tu ragionar di Omero: ché se mai potessi, bene sapresti ragionare di tutti i poeti anche: perché alla fine l'è tutta poetica; o no?

JONE: Sì.

SOCRATE: Or, se alcuno uomo possiede tutta intera un'arte qualsivoglia, le considerazioni che sa fare su quella, non le può trarre a tutte l'opere che a quella riguardano? o c'è bisogno che ti annoi chiarendoti la ragione... ?" (4)

A questo punto, Socrate, negando di dirsi sapiente come Jone lo definiva, inizia a determinare, attraverso le domande all'interlocutore, che cosa sia l'arte, cominciando dalla pittura, per proseguire con la scultura, e dimostrando che la bellezza di ciascuna di queste arti non si misura dal suscitare più o meno il sonno. Jone non riesce a spiegare perché preferisca Omero agli altri poeti, e recitandolo si esprima con maggiore vivacità. Chiede così a Socrate di chiarirgliene la ragione :

"SOCRATE: Vedo io, o Jone, e ti dirò quello che me ne pare. Egli è però che non è arte la tua, che ti fa bene favellare di Omero...; ma sì ella è virtù celestiale che ti muove...; la Musa inspira gli animi e infiamma, e gl'infiammati poi infiammando altri molti, sì una catena componesi per cotale mondo. E per fermo tutti quanti i buoni poeti epici, non per magisterio di arte fanno tutti questi poemi belli, ma sì perché sono pieni di Dio...

... E dicono vero, però, che il poeta è cosa leggiera, alata, sacra; e a niente egli è buono, se innanzi non è inspirato da Dio e non è in furore e non è la mente pellegrina da lui [ovvero, isolata, separata da lui, quasi che l'ispirazione non fosse interiore al poeta, ma a lui esterna] ; imperocché insino a tanto che ha qualcuno le potenze sue, non può poetare e vaticinare. E come non poeteggiano i poeti per magistero di arte e dicono molte belle cose, come tu sopra Omero, ma sì per divino fato; così solamente in quelle cose viene a bene ciascuno di loro, alle quali tratto egli è dalla Musa. ei non fanno per arte tutte queste forme di poemi, ma sì bene per celestiale virtù; che se una sola sapesser far per arte, fare anco saprebbero tutte le altre. E però lddio, togliendo loro la mente, di loro si giova come ministri ciascuno inspirato è da quell'lddio che l'ispira: e Iddio ciò mostrando manifestamente per il più sciocco poeta ci cantò il canto più bello. O non ti par che io dica il vero?5

Jone è costretto a riconoscere la verità delle asserzioni di Socrate. Appare cosi ormai delineata la concezione poetica che Platone pone in bocca a Socrate: l' Arte, essenzialmente, non è affatto tecnica: essa è espressione di un sentimento che non proviene dall'interiorità del poeta o dalla sua conoscenza stilistica o di cultura generale (potrebbe anche essere un perfetto analfabeta), ma è piuttosto una manifestazione rivelatrice della divinità. Il poeta è, per Platone, ciò che il profeta è nella tradizione biblica: un ispirato da Dio. II poeta non necessita di abilità tecniche, egli esprime non ciò che è suo, ma ciò che Dio stesso gli trasmette.

Nel rapporto con i suoi ascoltatori o con i suoi lettori, il poeta, proprio grazie all'influenza divina, riesce a trasmettere ad essi con la medesima forza ed intensità i sentimenti che vivono in lui.

Il dialogo prosegue, con la domanda che Socrate pone a Jone sul fatto che i rapsodi o cantori siano interpreti di interpreti: se il poeta interpreta ed esprime il sentimento ispiratogli da Dio, il cantore, colui che recita i versi del poeta, è a sua volta un interprete: deve cercare di rendere, con la recitazione, Ia stessa forza, la stessa intensità della poesia Se così non fosse si perderebbe l'afflato divino, e gli ascoltatori non ne capirebbero il messaggio, si annoierebbero o lo rifiuterebbero del tutto. Socrate vuol far rilevare a Jone che, mentre recita o canta i versi di Omero, egli si investe nella parte, in modo tale da rivivere, come se fossero in quel momento reali i sentimenti del poeta (6)

"JONE : Oh com'ella è chiara cotesta prova che tu mi arrechi. Io non ti tengo nascosto che a me gli occhi, quando io recito alcun miserabile caso, si empiono di lacrime, e quando avvenimenti paurosi i capelli si rizzano dallo spavento e ii cuore batte forte " (7) .

Socrate, ancora, spinge Jone ad affermare che, quando il cantore sa esprimere con forza tali sentimenti, anche il pubblico si esalta e rivive nelle proprie persone quei sentimenti stessi, com-patendo (soffrendo insieme) al modo stesso dell'attore o del cantore. Ha buon gioco, cosi, Socrate di confermare che è la divina azione che si proietta dal poeta all'attore allo spettatore, trasmettendo quegli stati d'animo che Dio vuole trasmettere, indipendentemente dalla volontà o dai desideri dei singoli. La conversazione poi prosegue, con un'analisi di alcune strofe d'Omero, che non interessano il nostro argomento. Socrate finisce in sostanza per rimproverare Jone che, un po' presuntuosamente, ritiene di poter parlare o agire come persone esperte in ben altri settori (ad esempio, un condottiero), mentre viceversa evita di dargli prova della sua abilità recitativa.

                                                                                ***

E passiamo ora al dialogo "Fedro": in esso troviamo quel mito famoso dell'anima come "biga alata", presente anche, con alcune varianti, nel pensiero indiano (8). Il discorso comincia a vertere sull'amore: secondo il retore Lisia, dalla cui casa viene il giovane Fedro, e più opportuno amare con misura, ed essere amati nel modo stesso, che non in modo troppo appassionato ed irragionevole; in questo secondo caso, l'amore finirebbe per sconfinare nella gelosia, con ulteriori possibili degenerazioni pericolose. Socrate non concorda con questa concezione e formula un' altra teoria :

"FEDRO: Che ti pare, Socrate, la orazione? non sovrumana, massime per le parole?

SOCRATE: Divina, o amico, sì che ne fui percosso; e questo per guardare te, perocché ti rilucea in viso la gioia...

FEDRO:... sii schietto, per Giove custoditore dell'amicizia: credi tu che alcuno altro Elleno possa dire altre cose, più, e più grandi di queste, su questo soggetto ?

SOCRATE: ... se pur non nieghi, mi parve che ripetuto abbia due o tre volte le medesime cose, come un non avesse il modo di dir molto su uno stesso soggetto... mi parve chiaro che, pompeggiandosi a ripetere le medesime cose or in una forma e ora in un'altra e sempre assai bene, volesse giovineggiare [farsi passar per giovane, imitare i giovani].

Sei un amore, o Fedro, e proprio un uomo d'oro, se pensi che affermare io voglia che Lisia non ne ha imbroccata pur una, il che non succede anche a scrittoruzzo dei più da poco..." (9) .

 

Dopo le solite varie schermaglie fra Socrate e il giovane amico, il filosofo comincia il suo primo discorso, nel quale dà una prima definizione dell'amore come desiderio della bellezza. Distingue poi tra un semplice desiderio di bellezza fisica, perciò ricerca di piaceri fisici, e il desiderio e la volizione del bene. Questi due desideri talvolta concordano, tal'altra no; spesso prevale il primo ed assume il nome di Eros (10). Colui che ama, sostiene Socrate, è afflitto da sentimenti molto contrastanti, sia nei confronti della persona amata, sia verso coloro che la circondano, e pure per le cose che possiede o non possiede. Socrate passa poi, dopo altre disquisizioni, all'aspetto spirituale dell'amore:

"SOCRATE: ... Conviene però conoscer prima il vero della natura dell'anima, di quella divina e di quella umana, considerando ciò ch'ella fa e ciò ch'ella patisce. Principio della dimostrazion è questo .

XXIV. lmmortale è ogni anima; perchè immortale quello è, che si muove sempre. Ma se cosa muove poi altra, e da altra è mossa, in quella è cessazione di moto, ed è cessazione di vita anche. Dunque, solo quel che si muove da sè, però che mai non abbandona sè, dal muoversi non si quieta mai, anzi fonte è e principio di moto a tutte le cose che si muovono. E il principio è non generato... e dacché è non generato, ancora di necessità è incorruttibile: imperocché se si corrompesse il principio, né esso genererebbesi mai da altro, né altro da esso; se è vero che ciascuna cosa che si generi, si dee generare da un principio... E se è veramente così, che quel che si muove da sé non altro è che anima, l'anima sarebbe di necessità senza nascimento e immortale” (11) .

Questo di Platone è il primo tentativo di dimostrare per via logica l'immortalità dell'anima, non solo umana. Da questo ragionamento, dei cui aspetti dogmatici e non dimostrativi qui non stiamo a discutere, derivano poi altri ragionamenti, uguali od opposti, sull'accettazione o sul rifiuto di questa immortalità. A questo punto Socrate introduce il mito della biga alata che riporterò nei suoi elementi essenziali :

“Si assomigli, dunque, alle possanze connaturate insieme d'una diga alata e un auriga... è da notare che la parte che dentro noi regge, quella guida il cocchio; e poi, che l'un de cavalli è buono e bello...; e l'altro... cattivo e brutto: onde è assai malagevole a noi il guidamento delle bighe. Ma ora chiariamo la ragione di cotesti nomi, cioè d'animal mortale e immortale. Ogni anima ha in cura tutto quel ch’è inanimato, e vassene... in giro per tutto il cielo. E insino a che è perfetta, e alata, vola alto, e governa il mondo; ma se si spenna, trasportata ella è in qua e in là insino a tanto che ad alcuna cosa solida non s'appigli..., e il tutto, cioè l'anima congiuntamente con il corpo, fu chiamato animale, e datogli il sovrannome di mortale. Il nome d'immortale poi non viene da discorso di ragione ma sì perchè noi ci figuriamo Dio, non avendolo veduto né inteso sufficientemente, un cotal animale immortale, avente anima e avente corpo, disposati insieme per natura...

XXVI. Fatta è cosi la virtù dell’ala, che ciò che è grave trae su, e leva là dove la generazione degl’Iddii abita... Ma è bellezza quello che è divino, scienza è, bontà e simili perfezioni; e di queste peró si nutre specialmente e fiorisce l'ala dell'anima; e s'attrista e si spenna per li lor contrari, cioè per bruttezza, malizia e cotali mancamenti... ” (12) .

Ora, mentre le anime degli dèi sanno mantenersi nel cielo (il Mondo Iperuranio, che, in realtà, significa ciò che è oltre il cielo materiale, quello che oggi diciamo atmosfera, o addirittura l'universo stesso), per gli uomini, o per esseri anche inferiori, la cosa è ben diversa.

“XXVIII. Questa è la vita degli Iddii; quanto alle altre anime, alcuna segue studiosamente un Iddio e fatta si è a lui simile, e però l'auriga suo leva su il capo fuor della volta del cielo...: ma a gran fatica, isbigottendola i cavalli, vede gli enti; alcun’ altra poi levasi ora su, ora sprofondasi, e parte vede gli enti, parte no... Onde un tumulto, zuffa, angoscia...senza aver contemplato l'ente si partono, e partite, elle si cibano solo di opinioni [con una certa libertà, Platone cerca di spiegare la differenza di condizioni delle anime, come derivate dal poter avere, più o meno, un’esatta visione degli enti o Idee…]

.... Qualunque anima vide alcun de' veri seguitando alcuno Iddio, non riceverà molestia...; e, se in perpetuo potrà ella ciò fare, in perpetuo ella sarà incolume. Se poi niente vide, non potendo seguitare l'lddio e, se per sopravveniente sciagura tutta ismemoratasi e riempiuta di malizia, aggravasi [si appesantisce], e, grave fatta, le si dispiccan le penne e cade giu in terra... quella che potè veder molto, quella trapiantisi in un futuro filosofo, o in alcuno vago di bellezza, o in alcuno musico e vago d'amore; e che l'anima, seconda a quella quanta a visione [ovvero, che ha visto meno della prima], trapiantisi in un legittimo re, o guerriero o duce; e la terza, in un futuro politico, o iconomico, od accumulator di denaro... " (13) .

In sostanza, Platone, grazie a questo mito, cerca di spiegare non solo l'origine dell'anima umana, bensì anche il diverso livello spirituale ed intellettuale della stessa: chi più ha visto le Idee, più tende a riavvicinarsi al Mondo Iperuranio; chi ha visto meno, è sempre molto più attaccato alle cose terrene. C'è dunque una gerarchia delle anime, discorso questo che si ricollega alla "Repubblica'', dove si giustifica la gerarchia tra le classi sociali. Secondo Platone, l'anima non può tornare nell'Iperuranio prima di diecimila anni, ma quelle dei filosofi, per il loro amore per la sapienza e la verità, potranno farlo dopo un terzo ciclo di 1.000 anni. Egli ammette, come del resto gli Indiani, una reincarnazione, anche attraverso corpi di animale, se l'individuo si degrada troppo, ma può anche rielevarsi alla natura umana. La conoscenza umana, come anche sostenuto nel dialogo "Menone", è rimembranza, reminiscenza, ricordo di ciò che si era visto nell'Iperuranio, e l'aspetto di questo mondo è bellezza, la quale non è tuttavia pura apparenza o fonte di piacere in senso estetico, ma è rappresentazione della divinità e della giustizia:

"XXX. Qua venuto è dunque tutto il ragionamento sovra al quarto furore, a dire, che se veggendo alcuno la bellezza di quaggiù, si rammenta la verace bellezza, egli mette ali; e, fatto alato, desia di volare in su... E veramente, come detto è, ogni anima d'uomo contemplò i veraci enti; se no, ella non si legava entro umana forma... Or di giustizia e temperanza... niuno lume è nei simulacri di quaggiù [le cose materiali che, se possono essere belle, non sono comunque mai giuste o rispondenti a principi morali] ...

XXXI La bellezza dicemmo, dunque, che lampeggiava a noi ella insieme con gli altri enti; e, venuti quaggiù, per mezzo di quello de' nostri sensi, ch'è piu chiaro, noi la rivedemmo nel fulgore della chiarità sua. E veramente la vista e il più acuto de' sensi corporali: ma, la sapienza non la vede... La bellezza, ella sola, ebbe questa sorte di essere amabilissima e di essere molto parvente…

XXXII. A questa passione, alla quale volto é il mio ragionamento, gli uomini danno il nome d’Amore; ma il nome se odi, che le danno gl’Iddii, tu riderai forse per la novità... Eccoli:

“Lui chiamano i mortali Amore alato;

Gl’Immortali, dator d’ali” (14)

 

XXXIV. Come fu distinta in tre parti [vegetativa, come nelle piante; sensitiva, come negli animali; intellettiva nei soli uomini: l’anima de1l’uomo ha in sé presenti tutti e tre questi aspetti (15), e cio spiega la complessità del comportamento umano, in cui predomina la ragione solo se è coltivata ed educata] ogni anima in principio di cotesta novella [di codesto discorso], due aventi cotal forma di cavallo e la terza di auriga, così vogliamo anche presentemente serbare la detta distinzione. E si disse che uno de’ cavalli é buono, e che l’altro é tristo;- ma ora si vuol chiarire... qual sia la bontà dell’uno e quale la tristizia dell’altro.

Ora, sì tosto che l’auriga [l’elemento intellettivo, razionale] vede il bel viso... e acuti desii lo pungono di amore, quel de’ cavalli di assai buona voglia ubbidiente all’auriga [il sentimento tende ad obbedire alla ragione]... per pudore si tiene ch’è non offenda la giovinetta persona [qui Platone adotta una simbologia amorosa, perché il sentimento é casto e tende ad obbedire alla ragione che insegna il vero, e quindi i1 rispetto verso 1a persona amata; l’istinto, invece, tende a1 puro rapporto fisico e non ha pudore]. Ma l’altro né a pungelli di auriga volgesi, né a flagelli, ed esaltasi e furiosamente dimenasi, dando al compagno di giogo, e all’auriga, assai aspro travaglio...

XXXV. E vedendolo [i1 viso de1l’amata, come simbolo; l’Assoluto, in quanto assoluta bellezza, come significato], la mente dell’auriga è traslata alla superna bellezza, la quale, novamente rivede posare su immacolato trono, insieme con temperanza, e spaventa; e tutta all’indietro gittasi dalla venerazione, riversato cadendo in quel che sì tira forte le briglie, che, erti tutti e due i cavalli levandosi, ricascano in su le coscie; l’uno di buona voglia, che non rilutta, e di molto mala voglia l’altro, il protervo...

XXXVII. E se nell’anima vince quel più gentile, che induce a componimento [comportamento corretto] di costume e a filosofia, faranno beata vita quaggiù, e conforme a legge; però che per loro continenza e modestia ebbero soggiogato la parte di sé medesimi nella quale é malizia, e deliberato quella nella quale é virtu. Dopo morte, messe le ali e fatti lievi, sì han vinto quello dei tre certami veramente olimpiaci, il quale é tal bene, che niun maggiore dar può a uomo né prudenza umana né furore divino. Ma se menaron vita alquanto rusticana [noi diremmo brutale, materialistica, legata ai piaceri corporei], non ingentilita da fior di filosofia, e nondimeno furono d’onor vaghi, li sregolati cavalli, le anime… fanno sì che esse, quello creduto maggior diletto dal vulgo, quello vogliano... ” (16) .

Il discorso di Socrate é molto piu ornato di quanto qui si riporti per ovvie ragioni di spazio, ma soprattutto per ridurre ai termini puramente filosofici e razionali la questione è lo stesso mito, che, invece, in Platone è fortemente caratterizzato da stile letterario, reso ancor più ampolloso dal traduttore. Riprende, quindi, nei passi successivi il dibattito vero e proprio: Socrate, in certo modo, ha voluto gareggiare in retorica con Lisia, sostenendo che l’Amore e ricerca di quella Bellezza, che non è di questo mondo fisico, ma dell’Iperuranio, e della quale la bellezza fisica non è che un pallido riflesso. L’istinto o anima vegetativa è fortemente attratto dall’aspetto corporeo e confonde (e fa confondere) i due diversi stati della realtà.

L’anima intellettiva, viceversa, riesce a controllare meglio quella sensitiva (o sentimento) che è più rispettosa delle leggi divine, cogliendo quella che è la Bellezza interiore della persona amata, in tal modo rielevandosi all’Iperuranio. Si passa così a discutere dell’arte espressiva, come oratoria e retorica, nei modi e nelle regole che la devono mantenere. Fondamentale, tra queste, è che il retore e l’oratore non debbono dir cose false in modo anche elegante, bensì cose vere in modo adatto rispetto a1 loro contenuto, concetto non dissimile dalla celebre frase di Catone il Censore: “orator, vir bonus dicendi peritus”.

Platone fa dire a Socrate “Arte propriamente del dire, dice Lacone [ovvero gli Spartani], senza l’apprensione della veritâ, né ci é, né ci sarà mai” (17) : se questo precetto fosse studiato ed applicato dagli odierni politici europei, l’Europa starebbe assai meglio di quel che sta.

Secondo Socrate, per costituire un’ottima retorica, occorre essere esperti di dialettica, ovvero sul metodo della distinzione e della deduzione logiche. Per questo, occorre avere una conoscenza, non solo della filosofia, ma di ogni altra scienza, particolarmente sull’uomo. Wittgenstein, in tal modo ripigliando questo principio, affermò, com’è noto: “Di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere”. La cosa sembrerebbe tautologica, se non intendessimo dire “Su ciò che non si conosce adeguatamente, é preferibile tacere”, per non asserire, con presunzione, come vere cose false o puramente fantasiose.

“LVI. Dacché ha potenza la orazione di guidare l’anima, é necessità che sappia chiunque vorrà essere oratore quante specie ha l’anima [l’oratore non può essere ignaro di psicologia: piu avanti Platone fa sottolineare a Socrate, come proprio nei tribunali (le cattive abitudini non muoiono mai) si confonda il vero col verisimile e la pura abilità verbale sia confusa con la sostanza dei fatti - oggi, a dire il vero, non succede nemmeno questo, perché di oratoria nelle aule giudiziarie si sente assai poco]. Or ce n’è tante e tante, e tali e tali; onde uno é così, e uno così. E come le anime, c’é tante e tante specie di orazioni, e tali e tali. E però tale per tale orazione per tal ragione e tale cosa muovesi facilmente; e tal altro, per la ragione medesima no [ognuno reagisce in modo più o meno diverso, pur di fronte alle medesime cose o asserzioni]. E, inteso questo, conviene poi ch'egli consideri esse anime nelle loro operazioni e atti, e con intento occhio le segua; se no, non saprà nulla da quei infuori ch'ebbe appreso per la conversazione con i suoi maestri... - e se, oltre a queste doti, saprà cogliere il tempo del parlare e tacere; e conoscerà quando convenga il dir breve, o il dire pietoso, o il terribile....; la sua arte è allora bella e perfetta, prima no...” (18)

 

Socrate, quindi, vuol dire che l'arte oratoria, oltre che vera, deve essere varia, stilisticamente diversa a seconda del contenuto, ma anche, in certa misura, secondo il carattere degli ascoltatori. Oggi, è facile trovare chi parla molto, ma spesso dice non solo cose errate o intenzionalmente false, ma non è capace neppure di esprimersi in modo vario, è monotono, monocorde, con un tono di voce o con uno stile sempre uguale. Ciò non può far apprezzare il contenuto, ma non può nemmeno attrarre il sentimento dell'ascoltatore o del lettore.

E' come se, per tornare alla biga alata, cavalli ed auriga dormissero, e la biga restasse a mezz'aria senza dirigersi verso l'Iperuranio, né scendere verso la terra.

Per dirla con Dante, sarebbero gli “sciaurati, che mai non fur vivi”

 

In conclusione, per Platone la Bellezza è dimensione divina, è il medesimo del Vero e del Buono: essa appartiene al Mondo Iperuranio. Essa si proietta sulle cose fisiche, nel senso che è l'anima stessa dell'uomo che, avendola vista nel Cielo, la rivede riflessa nelle cose e nei corpi. Questo ricordo della sua vita anteriore e delle cose viste nell'Iperuranio, che spinge a ricercarle nel mondo materiale è Amore. L'Arte è espressione di questo Amore e deve, sia nei suoi contenuti, sia nei suoi più vari modi espressivi (non solo nella retorica e nell'oratoria, ma anche nella pittura, scultura e musica), rendere l'idea della Bellezza e spingere l'uomo a riavvicinarsi ad essa. Bellezza e Amore, guidati dalla Filosofia, sono i motori della rielevazione dell'Anima alla Divinità, la quale, in Platone è insieme monoteista e politeista (talvolta parla di Dio e talvolta di dèi): si potrebbe, pure, in lui parlare di un panteismo latente, proprio come tramite tra credenza in un unico Dio e in tanti dèi. La figura del Demiurgo del "Timeo", uno dei suoi ultimi dialoghi, dove spiega che il mondo materiale fu modellato su imitazione del Mondo Iperuranio, rappresenta il tentativo di conciliazione tra queste due diverse posizioni religiose e metafisiche.

 

NOTE

 

I testi dei due dialoghi sono tratti dall' edizione EINAUDI (collana "Gli Struzzi", Torino, 1970), trad. it di Francesco Acri, a cura di Carlo Carena, pagg. 167 - 185 e 503 -567). La traduzione dell'Acri ha un'espressione particolarmente toscaneggiante e quasi trecentesca, pur essendo il traduttore vissuto nell'Ottocento; nel dialogo vero e proprio rende bene quello che doveva essere il linguaggio di Socrate, semplice, ma non semplicistico, tale da far comprendere anche agli scarsamente colti l'essenzialità di concetti e problemi filosoficamente complessi; viceversa, nelle parti più tecnicamente teoretiche, la traduzione dell'Acri non risulta sempre chiara. In alcuni casi, per ragioni di immediatezza ho Inserito, in parentesi quadra e con carattere tondo, la spiegazione di termini o di concetti. che al lettore d'oggipossono apparire poco comprensibili .

(1) ibidem, pag. 171 .

(2) ibidem, pag. 173 .

(3) ibidem, pag. 174 .

(4) ibidem, pagg. 175 - 176 .

(5) Sappiamo bene che, in questa metà del secolo XX ed inizi XXI, la recitazione appare una procedura che snatura completamente lo spirito e, talvolta. la stessa lettera deì testi. C'è una tendenza ad "ammodernare" il momento cronologico, come se i sentimenti di antichi autori, la loro forza espressiva, si potessero esprimere con la quotidiana banalità: sicché è d'uso urlare, quando non serve; piangere quando si è indifferenti, sproloquiare con battute di dubbio gusto. Orbene, se questo può essere legittimo per i drammi di moderna fattura, dove prevale il culto delle inezie, delle banalità o delle volgarità quasi sempre gratuite, ciò non è lecito con i drammi antichi, che spesso hanno un'origine religiosa. Recitare i grandi tragediografi greci come se fossero scrittorelli del nostro tempo, è a mio parere un modo di non esprimere null'altro che la propria incapacità creativa o di interpretazione. Non si deve gridare solo perché il pubblico altrimenti, non sente: ma perché il grido sorge violento dalla condivisione dei sentimenti tra attore e personaggio, perché il fatto lo impone. La modulazione della voce deve essere tale da farsi sentire senza bisogno di urlare: la voce deve essere alta e chiara nel volume, non stridula nella tonalità. La voce si deve levare, senza bisogno di tendere i muscoli facciali e del collo, spalancando la bocca e mettendo in evidenza dentiere da pescecani. L'acuto, se c'è, non deve farsi stridìo fastidioso. Oggi, molti pretesi attori teatrali si comportano come sindacalisti che urlano in modo stridente, anche quando non c'è alcun bisogno di urlare, e pensano di giustificarsi çlicendo che quella che, in senso negativo, chiamano "declamazione" (altrimenti, “recitare in modo espressivo, sentito e confacente ali'argomento ed alla situazione") è "enfatica"e non è più di moda...

(6/7) ibidem, pag. 177 .

(8) Appare assai difficile dire se questo mito sia stato appreso da Platone attraverso riferimenti di già esistenti culture indiane, o se piuttosto, con la spedizione di Alessandro Magno verso l'attuale Pakistan, nop. sia stata esportata in India attraverso la cultura ellenistica. Di fatto, la tanto vantata attuale "globalizzazione" (malgrado l'assenza di INTERNET e di altri strumenti analoghi) è sempre esistita, certamente, con ritmi assai più lenti, ma non poi tanto, di oggi. Così idee e concezioni, per terra e per mare, circolavano fin dall'antichità. Basterebbe pensare all'idea della metempsicosi, condivisa e sostenuta da Platone, che è idea orientale, tipica particolarmente del brahmanesimo, ma presente anche nell'Egitto dei faraoni. Platone, sicuramente, la apprende dai Pitagorici. Sappiamo inoltre che. perfino, la lontana (dall'India. ma anche dall'Egitto) cultura druidica fra i Celti condivideva il principio della reincarnazione o metempsicosi che sarebbe più opportuno, a mio parere, chiamare metemsomatosi, in quanto passaggio di una stessa anima attraverso più corpi, e non di un "qualcosa" tra più anime). Altro esempio di "globalizzazione culturale" dell'antichità era la conoscenza, fra i Greci e più tardi fra i Romani, delle concezioni zoroastriane, diffuse nell'antico Iran o Persia, sia in modo diretto, sia attraverso i più vari sincretismi ed eclettismi .

(9) ibidem, pagg. 514 - 516 .

(10) Sull'amore e sui suoi aspetti va confrontato il dialogo "Simposio" , dove vengono formulate varie ipotesi e teorie. Sull'anima cfr. "Fedone" e sulla natura umana "Alcibiade".

(11) ibidem, pag. 527 .

(12) ibidem, pag. 528 .

(13) ibidem pag. 530 .

(14) ibidem, pag. 532 - 534 .

(15) La teoria della tripartizione dell'anima in aspetti che, noi più modernamente, potremmo distinguere in inconscio (collettivo, di specie, o istinto; ed individuale, acquisito dal concepimento fino all'età cosciente), sentimento e ragione, appare quindi con Platone (probabilmente su basi pitagoriche), ed è seguita, con alcune varianti, da Aristotele; nel primo, tuttavia, è un ente separato dal corpo, che si trova in questo come in una prigione, o come dice in modo più ottimistico, come un timoniere sulla nave; nel secondo, l'anima non è che forma del corpo, funzione complessiva o atto dell'organismo, concetti questi che potremmo tradurre come legge organica del corpo, il suo stato complessivo, che dura quanto dura il corpo, e pertanto non è immortale: cessando la materia e la potenza del corpo, cessano la forma e l'atto dell'organismo complessivo. Aristotele, nega cosi, una vera spiritualità dell'anima, la sua indipendenza e trascendenza dal corpo: l’anima è piuttosto immanente e connessa alla vita corporea

(16) ibidem, pagg. 532 - 539

(17) ibidem, pag. 544

(18) ibidem, pag. 558

 

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