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                                               Manlio Tummolo

 

Per un'oliva pallida si può delirare"

 Ottocento e Novecento in lotta in una commedia di Giovanni Mosca

 

   

Chi tra noi ha compiuto tra i sessanta e i settant'anni ricorderà i tempi felici, o almeno sicuramente migliori, della televisione dei ragazzi degli Anni Sessanta. Non per fare il solito discorso del 'laudator temporis acti', per pura onestà intellettuale e storica, i tempi in cui c'era il vecchio canale unico, o al massimo due, la Televisione, quella del tanto disprezzato Bemabei, era assai più guardabile ed apprezzabile di quella d'oggi, quantunque in bianco e nero e priva di quegli stupendi effetti tecnici che oggi ci estasiano. Dunque, chi di noi ha superato i sessant'anni, allora bambino e preadolescente, ricorderà un signore dai capelli bianchi, particolarmente vivace e spiritoso, sempre sorridente, d'animo giovanile, responsabile o collaboratore della televisione dei ragazzi. A noi, bambini o ragazzini, poteva apparire un vecchietto , tuttavia non lo era in quanto non aveva ancora compiuto sessant'anni, essendo nato nel 1908. Quel signore, vivace e giovane nei modi era Giovanni Mosca, docente integrale e profondo educatore; insegnante non pedante, che mirava a far apprendere concetti e idee, modi di vita, piuttosto che nozioni formali. È morto nel 1983 rapidamente ignorato dalla Televisione reclamistica e bottegaia dei nostri tempi. Ricercando nelle librerie ristampe o riedizioni dei suoi lavori, ho potuto trovare soltanto i suoi simpaticissimi "Ricordi di scuola", ripubblicati dalla BUR nel 2001. Pochi altri lavori, di carattere didattico, sono ancora reperibili. Eppure, Giovanni Mosca fu giornalista di rilievo, umorista, vignettista,collaboratore di Giovanni Guareschi e di Sergio Tofano. Fu anche spiritoso autore di commedie, raccolte in parte già nel 1945, appena finita la guerra, in un libro pubblicato dall'ormai scomparsa Editrice Le Due Torri di Milano. La prima, che dà il titolo alla raccolta, è "L'Abate di Staffarda", la seconda è quella di cui ci occuperemo tra poco "L'ex-alunno", e la terza "Piccoli Traguardi" riunisce tre atti unici "La sommossa", "La giostra" e "L'anticamera".

 

Personalmente ritengo che Giovanni Mosca sia un autore del Novecento che meriterebbe di essere tolto dalla soffitta, nella quale è stato posto immeritatamente, e rivalutato, anche se il suo stile può sembrare dimesso o molto semplice. I suoi "Ricordi di scuola" potrebbero tornare, come pur erano presenti nelle antologie dei nostri tempi, in testi scolastici, anche per far capire che, malgrado tanti cambiamenti di carattere sociale e psicologico, tutto sommato certe problematiche dei giovani, degli alunni, non si sono poi tanto modificate. Certo, vi è nella scuola degli ultimi anni una preponderante presenza della tecnologia, non sempre positiva (vediamo i cellulari usati ed abusati in ogni momento nelle aule), ma certi atteggiamenti non si sono modificati: ad esempio, la classica paura degli esami, gli atteggiamenti verso gli insegnanti non ancora conosciuti e "classificati", certe tipiche reazioni, e così, sul fronte opposto, i modi, talvolta irrituali, dei docenti di saper conquistare, prima che la forma del rispetto, la sostanza di questo, attraverso l'affettività e l'intuizione, dato che soltanto attraverso la sostanza dei rapporti con gli alunni si conquista la giusta autorevolezza, rifiutando invece l'autoritarismo formalistico ed opprimente. Questo tipo di atteggiamento, che produce effetti non provvisori, ma duraturi nel tempo, è espresso proprio nella commedia "L'ex-alunno". Essa fu rappresentata a Genova per la prima volta al Teatro Margherita nel maggio 1942, dalla Compagnia Tòfano - Rissone - De Sica, ed ebbe subito un buon successo di pubblico, mentre al contrario la critica, soprattutto a Roma, fu abbastanza severa, definendola, com'egli stesso scrisse nella presentazione del testo citato (') "lavoretto, commediola, scherzetto scenico, lazzi e scherzi volgari, umorismo di cattivo gusto". Le definizioni qui riportate, come vedremo citando larga parte della commedia e soprattutto quella concernente un tema di grande rilievo (la netta cesura estetica, stilistica ed artistica, tra letteratura dell'Ottocento e del Novecento, tanto da far apparire i due secoli veramente in conflitto, in una contrapposizione assoluta, come mai prima era avvenuto), sono a mio parere assolutamente erronee. Lo stesso Mosca, nella citata prefazione, spiegò tanta aggressività nei propri confronti, sia per il fatto di aver, più che criticato, beffeggiato l'ermetismo (cosa indigeribile per i poeti e poetini del nostro tempo), sia per ragioni politiche. Infatti, la sottolineatura che la letteratura italiana, durante il fascismo e anche dopo, fosse diventata una misera cosa, non andava a genio a coloro che volevano far credere che l'arte italiana avesse mantenuto e mantenesse, in forme consone ai tempi , la sua grandezza. Mosca sfata tale vanteria, la irride: ciò non poteva non suscitare reazioni e, malgrado in vita fosse stato considerato, almeno fino agli Anni Sessanta, uno scrittore degno di entrare nelle antologie scolastiche (2), dagli Anni Settanta venne decisamente ignorato o dimenticato, forse proprio per questa sua capacità critica o, se si preferisce, per l'atteggiamento del fanciullo che riconosce la nudità del "vestito" del re, nella nota fiaba. Vi è in Mosca molto di quel fanciullo: semplicità, schiettezza, riconoscimento dell'evidenza delle cose, per quanto si tenti di mascherarle e truccarle, la capacità di svelare il vuoto dietro l'orpello propagandistico.

Il protagonista di questa commedia è un professore cinquantenne, Claudio Mornese, persona semplice ed austera, con una moglie, Evelina, ancora giovane e bella, che suscita l'interesse non innocente di un giovane che, per i suoi scopi, vuol spacciarsi come ex-alunno del professore, un certo Guglielmo Rossi. Questa è la cornice della commedia che, come lo stesso Mosca afferma, costituisce il "solito triangolo". Data la banalità della cosa, sebbene la storia non abbia quegli sviluppi erotici, che tanto estasiano lettori e spettatori del nostro tempo, non ci soffermiamo se non con questo breve cenno sugli eventi descritti. Alla fine del primo atto, il giovane e il professor Mornese concordano di vedersi, insieme ad altri giovani, per parlare di poesia, soprattutto dell'ermetismo, allora in voga.

Vediamo dunque il secondo atto. Siamo nello studio di Rossi, che parla ai suoi amici Bettini e Rofinè:

"...M'ha preso davvero per un suo alunno. Abbiamo ricordato i tempi trascorsi, m'ha fatto vedere il gruppo fotografico con tutti i miei condiscepoli ... Niente è più dolce e commovente dei ricordi non veri. Brambilla, Bianchi, Colombo … A poco a poco ci siamo uniti, io e il professore, nel ricordo di un passato mai esistito ...".

Già qui appare il carattere falso ed artificioso del giovane poeta: inganna, ma non sente rimorso; vuol far credere al professore di essere stato suo alunno, così come vuol far credere di sentire le proprie poesie. Una figura poco simpatica, artificiosa, insincera, così come insincero sarà il suo prodotto poetico. Mosca, con abilità, mette in rapporto le due cose. All'amico Rofinè che gli chiede che tipo sia il professore, Rossi risponde: "Mornese? Il tipo classico del vecchio professore di liceo di provincia. Un buon uomo. Grigio, sbiadito. Il tipo che se le merita, insomma ... Come tutti quelli che studiano, o lavorano troppo, trascurando la moglie. Perciò non ho rimorsi. Certo, fa pena ... D'altra parte … S'è parlato anche di poesia

BETTINI - Che idee ha?

ROSSI - Arretrate. Il solito: è fermo ancora al 'che significa?' Come tutti: la poesia non gli piace se non ne afferra il significato letterale.

ROFINE' - Ce ne vorrà prima che ci capiscano …"

I tre passano poi a parlare della graziosa moglie del professore, oggetto dei desideri del giovane poeta Rossi. L'obiettivo gli sfuggirà, ma questo non è il nostro tema di discussione. Ritornano poi a trattare di poesia e qui ci conviene seguire il testo, anche perché ai tre personaggi viene messa in bocca tutta la teoria estetica del futurismo e dell'ermetismo, sulla quale verteranno prima l'ascolto e gli interrogativi del professor Mornese, poi la sua critica demolitoria che ne evidenzia l'inconsistenza, soprattutto sul piano della sincerità dell'espressione:

"ROSSI - Questi borghesi vogliono capir tutto - come se i nostri tre giovincelli fossero proletari! - 'Che vuol dire?', 'Che significa?' ...

BETTINI - Quando, invece, il pregio della nostra poesia è quello di essere compresa da pochi. Spesso da nessuno.

ROFINE'- E questo è il bello. Spesso, confesso, non capisco quello che scrivo. Oppure un giorno ci trovo un significato, un giorno un altro ... Ogni giorno una cosa nuova, un'improvvisata.

ROSSI - Una cosa è certa: che abbiamo abolito la retorica, i luoghi comuni , i sentimentalismi. Parliamo non col cuore, ma col cervello - che, vedremo dopo, si rivela tutto sommato scarso ... Uccidendo le lacrimucce di De Amicis, la retorica di Carducci, i pigolii di Pascoli. Abbiamo purificato la letteratura - è facile qui risentire certi slogans del Manifesto del Futurismo di Marinetti: il celebre "Uccidiamo il chiaro di luna", ma che cosa è stato poi sostituito, ci chiediamo con Mosca? -

ROFINE' - 'Taci!' abbiamo detto al cuore. Il cuore ha taciuto, e s'è visto che se ne può fare a meno. Addio, vecchio organo ritenuto importante dalle passate generazioni!

BEITINI - Comincia con noi una nuova èra - come se la presunzione non fosse pure un sentimento ...

ROSSI - Basta con gli ideali!

ROFINE' - Con gli entusiasmi!

BETTINI - Con amore e morte!

ROSSI - Con le poesie per monaca o per nozze!

ROFINE' - Con la canzone della giardiniera!"

Si fanno poi beffe della moglie di Mornese, dell'amore e della poesia ottocentesca, facendone una teatrale caricatura. Nel mezzo di questa sceneggiata, arriva Mornese in persona:

"ROSSI - Il mio vecchio professore ... Professore, quale onore.

MORNESE - Caro Rossi .... Amici?

ROSSI - Bettini , Rofinè, il professor Mornese, mio antico insegnante - alla faccia dell'antica retorica: il giovane definisce "antico" il professore, come se avesse da chissà quanti anni finito la scuola - Poeti come me, professore.

MORNESE - Ermetici. Cioè chiusi, inaccessibili - ... Non discuto. Ogni epoca ha la sua maniera d'esprimersi. Né condanno, né approvo. Aspetto. I giovani, del resto, difficilmente hanno torto e i vecchi non sono mai stati i migliori giudici. I poeti del mio tempo cantavano la patria, l'amore. Voi non si sa che cosa cantiate. Ma non importa, si saprà. Non c'è fretta, il tempo è galantuomo.

ROSSI - Vedete, professore, se non cantiamo è forse perché ancora cerchiamo ...

MORNESE - L'indagine, nei giovani, è lodevole.

BETTINI - Si nota ancora in noi lo sforzo di liberarci di tutte le scorie del passato. Noi stiamo purificando la poesia, liberandola dai sentimenti che l'avevano appesantita e corrotta; noi cerchiamo di ridare alle parole quel valore assoluto che avevano perduto, e nude, pure, le fissiamo nello spazio, libere da ogni peso e d'ogni scoria ...

MORNESE - Perciò vi astraete dalla vita che vi circonda ...

BETTINI - Ma temporaneamente. Per rifarla nuova, vera - questo Bettini sembra l'unico vero teorico del gruppetto -.

MORNESE - Poi tornerete in terra.

ROSSI - Naturalmente.

MORNESE – Beh, allora io v'aspetto al ritorno ... Si può sentire una tua poesia, Rossi?

ROSSI - ... Questa. Una fra le migliori Tra le più significative.

MORNESE - Bene. Leggi con calma, dando espressione alle parole, rispettando le pause, come a scuola. Sono un vecchio professore, la lettura mi piace scolastica. Colorire i sentimenti - qui già sentiamo l'abisso tra lo scolastico del prof. Mornese e lo scolastico d'oggi, quando per lettura si intende una piatta pronuncia, senza alcuna coloritura, considerata declamatoria- ...

ROSSI - Qui non ci sono sentimenti.

MORNESE - Mettere in evidenza i concetti ... Concetti ce ne saranno!

ROSSI - Concetti, sì.

MORNESE - E allora avanti. Son tutt'orecchi.

ROSSI – È molto breve. Oggi la poesia lunga non usa.

MORNESE - Non discuto. Avanti, avanti, benedetto ragazzo.

ROSSI - già in crisi, malgrado la sua pompa pseudorazionalistica - Vedete, mi sembra d'essere tornato davvero ragazzo. Provo un po' di soggezione. 'Acquario'.

MORNESE - Come?

ROSSI – È il titolo.

MORNESE - Bene, 'Acquario '. Avanti

ROSSI - ...

La vedova di sé avvolge gli alberi

che sentitamente

solcano l'illusa adolescenza del vento.

Per un'oliva pallida

si può delirare...

MORNESE - Avanti.

ROSSI – È finita.

MORNESE - Scusa, Rossi, ma ti prego di rileggermela. E, rileggendola, cerca di dare sapore di finale agli ultimi due versi.

ROSSI …

La vedova di sé avvolge gli alberi

che sentitamente

solcano l'illusa adolescenza del vento.

Per un'oliva pallida

si può delirare...

MORNESE - ... Vedi? stavolta l'hai letta meglio e si capisce di più. Scusate se ho detto 'si capisce'. Il termine è improprio. Non si deve capire. S'intuisce dì più ... Ma chi è la vedova di sé? Scusate se son curioso. Noi vecchi ... Il primo verso, caro Rossi, non lo hai letto bene. Si deve leggere: La vedova di sé, avvolge gli alberi oppure La vedova, di sé avvolge gli alberi? appare evidente che il significato cambia col modificare la pausa; se il "di sé" si riferisce alla vedova, significa che la presunta donna è vedova, ovvero priva di se stessa; se invece il "di sé" si riferisce agli alberi, sembrerebbe un po' strano che una donna riesca ad avvolgere gli alberi con se stessa.

Rossi, al momento, ritiene la cosa di scarsa importanza, ma Mornese, da buon professore, lo tallona e lo mette, per così dire, "alle corde".

ROSSI - È indifferente.

MORNESE - Ah no! È importante. Nonostante tutti gli avvenimenti e i cambiamenti del mondo la punteggiatura - in effetti, criticando il critico, qui non è importante la punteggiatura, che in tal caso non si può porre tra il soggetto ed il predicato, quanto il tono, conseguente ad una pausa, indipendentemente dalla virgola che non si deve scrivere - ha mantenuto intatti il suo valore e la sua funzione. Una virgola vuol dir molto, sapete, anche oggi. In tutti i modi, la faccenda rimane oscura: nel primo caso non capisco chi possa essere la vedova di sé, cioè la vedova di se stessa; nel secondo non riesco a comprendere come una vedova, per quanti veli o mantelli abbia indosso, possa avvolgere di sé gli alberi.

- in tal modo Mornese giunge comunque, pur dopo aver affermato con i giovani poeti che non è necessario "comprendere", ma "intuire", a sollecitare dal giovane poeta una spiegazione del contenuto della poesia: per lui, non basta dire qualcosa, ma occorre che quanto detto abbia un significato, per quanto astratto o simbolico possa essere -.

ROSSI - Va letto: 'la vedova di sé'.

MORNESE - Cioè, la vedova di se stessa?

ROSSI - Sì. Ma io non dò importanza a questo. Non bisogna guardare al significato apparente. Quel che vale è l'intima essenza.

MORNESE - E tu m'assicuri che qui c'è un'intima essenza ...

ROSSI - Perbacco!

MORNESE· Ma capire il significato apparente potrà aiutarci a penetrare nell'intimo. Che cosa intendi per vedova di se stessa? Una signora che si veste a lutto per la propria morte?

BETTINI - No, qui Rossi usa vedova nel senso di orba, priva ...

MORNESE - Ma chi è questa vedova?

ROSSI - Se proprio lo volete sapere, è la luce.

MORNESE - La luce?

ROSSI - Si la luce, cioè la notte.

MORNESE - Ah! La luce, che essendo vedova, cioè priva di sé, cioè della luce, diventa tenebra, cioè notte.

ROSSI - Appunto.

MORNESE - E non potevi scrivere direttamente: la notte? Già, ma, allora, niente ermetismo. Hai ragione, non ci pensavo. La notte, dunque, avvolge gli alberi che sentitamente solcano ... Dunque gli alberi hanno un sentimento. Aspetta, vediamo se ci arrivo da me. Giusto. C'è il salice piangente. Se piange vuol dire che prova dolore, sente ...

Tutto diventa semplice, chiaro ...

Giusto. Il vento, che ha incominciato da poco a soffiare, e perciò è adolescente, viene solcato, cioè diviso dagli alberi contro i quali fa impeto. 'Illusa adolescenza': sì, perché il vento si illudeva di non essere solcato dagli alberi. Pazzo! Adolescente, entusiasta, è naturale che si illuda. Le illusioni sono proprie della gioventù. Ma la realtà è un'altra, la vita è dura. Bravo Rossi, ci sono molte verità nel tuo componimento. Ma perché, poi, concludi che per un'oliva pallida si può delirare?

Ne sei convinto?

ROSSI - Che c'entra? La convinzione, naturalmente, non è mai assoluta.

MORNESE - Scusa, Rossi: voi ermetici scrivete non secondo quanto vi detta il cuore; non, cioè, in preda a facile e fallace entusiasmo, ma per freddo, limpido ragionamento. Non è così?

ROSSI - È così.

- a questo punto il professore mette in evidenza la contraddizione tra quanto scritto e quanto pensato dal presunto poeta e, come vedremo, riuscirà a togliere ogni valore di sincerità, razionale o sentimentale che fosse, alla poesia di Rossi, che risulta così semplicemente un artificioso componimento -

MORNESE - Quindi, se dici che per un'oliva pallida si può delirare, non lo dici avventatamente, con leggerezza, ma convinto che si può effettivamente delirare per un'oliva. Ne hai sicuramente le prove. E adesso guardami, Rossi, e dimmi la verità. In coscienza, Rossi, hai mai delirato per un'oliva pallida?

ROSSI - Personalmente, no.

MORNESE - Allora avrai visto amici delirare, oppure avrai avuto notizia di conoscenti che hanno delirato. Rispondi francamente.

ROSSI - No. Ma, vedete, più che altro ...

MORNESE - ormai il professore, che aveva cercato di mantenere un atteggiamento di comprensione per i prodotti poetici del suo falso alunno, passa qui ad un vero attacco verbale, che diventa travolgente, e lascia i tre giovani, presunti poeti, in crisi totale, anche se poi cercheranno tra loro di confortarsi sulla validità della loro pretesa estetica -.

E allora perché lo scrivi? Perché inganni il lettore facendogli credere che si possa delirare per le olive? Non sta bene, Rossi. L'arte deve essere anche morale. Queste bugie da scolaretto sono indegne di un poeta. E poi, scusa, per un'oliva! E pallida, anche! Sarò vecchio, ragazzi, non capirò nulla, e non discuto perciò il valore letterario della vostra poesia: ma perdio! Un tempo i poeti cantavano ben altro che olive. L'amore, la patria, ecco che cosa cantavano!

'Dulce et decorum est pro patria mori '

'L'armi, qua l'armi: io solo combatterò, procomberò sol io!'

poesia passata! E che cosa opponete, voi, a questa poesia passata? Cauti, guardinghi, incapaci di slanci, timorosi di esternare affetti e sentimenti, venite avanti con le vostre olive! No, ragazzi, sbaglierò, ma siete su una falsa strada. In qualunque tempo, in qualunque epoca, la poesia non nasce soltanto dal cervello, ma dal cuore, dall'anima! Coraggio ci vuole! E ci vuol più coraggio a manifestare che a nascondere i propri sentimenti ...

- qui il professore si infiamma ancor di più e diventa ferocemente sarcastico -.

Il delirio per le olive! Avanti, un'oliva! Datemi un'oliva! Ci sono olive, in questa casa? - presa un'oliva dal mobile-bar -

Avanti, delirate, delirate, delirate!...

Scusate, ho trasceso, Forse ho torto. Perdonatemi: sono un vecchio professore, troppo vecchio, non riusciremo mai a capirci.

Scusate, ma è stato più forte di me ... E un consiglio ragazzi: il cuore, l'anima che avete banditi, richiamateli, richiamateli: richiamateli in aiuto del povero cervello che, da solo, non riesce a partorire che olive".

 

Mornese esce e i tre presunti poeti tacciono quasi intimiditi, ma poi cercano di confortarsi. ln effetti, il vero unico giovane è proprio l'ultracinquantenne Mornese, un giovane di stampo antico, mentre sono essi i veri vecchietti, incapaci di appassionarsi alla loro stessa pretesa arte: ed infatti, Rossi avrebbe pur potuto obiettare che la sua "oliva pallida" rappresenta simbolicamente qualcosa di piccolo, di tenero, una piccola cosa della vita quotidiana, che pure dobbiamo apprezzare o addirittura sentirne la mancanza: ma non riesce, perché vive le sue teorie estetiche solo ad un livello superficiale, perché così è di moda, per sentirsi parte della contemporaneità, per un desiderio inconscio di massificazione, malgrado gli atteggiamenti da rivoluzionari dell'estetica letteraria.

"BETTINI - Ottocento, vecchio Ottocento che non vuol morire. Il cuore, l'anima ...

ROFINE' - Terribile, il professore, quando si riscalda! BETTINI - E noi zitti.

ROSSI - Che volevi dire? Un vecchio ha sempre ragione. E poi, in certi momenti, mi sembra davvero d'essere stato suo alunno, e non ardisco rispondergli. Del resto, sentiamo tu Bettini. Che gli avresti risposto? l'amico tace.

ROFINE'- Certo che quel delirio per le olive ...io stesso, se ricordi, ti dissi che era esagerato. Figuriamoci poi, se poteva andar giù a un professore di liceo ...

BETTINI - E con questo? Pensino quello che vogliono, i professori. Noi andiamo avanti per la nostra strada, la strada delle olive".

I tre giovani si predispongono poi a preparare il terreno per l'arrivo di Evelina che dovrebbe rimanere affascinata e sedotta da un ambiente di creativo ed artistico disordine. Lei infatti sembrerebbe cascarci , anche con l'aiuto di una passatista poesia di Panzacchi, ma Mornese, già fin dal primo Atto accortosi che il Rossi non era mai stato suo alunno ed informato dei suoi piani grazie ad una fedele domestica, li coglie insieme, prima del cosiddetto "irreparabile'', e ne approfitta per una vera e propria scolasticissima lezione di morale, condita da una vera e propria beffa. A dire il vero, la conclusione della commedia, specialmente al terzo Atto, non è meno cervellotica ed artificiosa delle olive di Rossi e dei suoi due amici, ma, come avevo anticipato, l'interesse della commedia non sta nella tentata e fallita seduzione di una moglie stanca del marito abitudinario, bensì proprio nel dibattito sull'estetica e sull'arte del Novecento.

 

Personalmente concordo con Mosca nel ritenere che il secolo XX, nella sua ansia disperata di ricercare il nuovo ad ogni costo, sia caduto o nell'insignificante o addirittura nel brutto, nel gusto dell'orrido. In molte epoche storiche, si è fatto un principio estetico quello della "ricerca del nuovo": pensiamo, ad esempio, ai poetae novi della fine della repubblica romana che ci hanno offerto un Valerio Catullo, oppure al Dolce Stil nuovo, che ci ha donato un Dante Alighieri. La differenza però consiste nel fatto che, allora, il nuovo non era considerato un qualcosa di assoluto e che il rispetto verso canoni e princìpi estetici tradizionali o classici era fortemente mantenuto. Poteva esserci una maggiore libertà di stile, soprattutto una maggior sincerità nell'espressione dei sentimenti, tuttavia passato e presente non si mostravano contrapposti, non c'era rottura, si manteneva comunque un principio di continuità.

Il Novecento, soprattutto a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, ha segnato viceversa una totale rottura, sono stati travolti canoni e princìpi estetici, si è quasi mirato alla ricerca del nuovo per il nuovo, col risultato di ottenere il vuoto per il vuoto o il brutto per il brutto. Praticamente ogni settore dell'arte è stato travolto da un marasma, nel quale si è voluto apparire insieme realisti ed astratti, negatori di sentimenti ed al tempo stesso esaltatori di forme cerebrali e macchinose, ma non razionali (in quanto la ragione ed il sentimento, come hanno ben dimostrato i Romantici, possono sposarsi benissimo), anzi spesso irrazionaliste, assurde, ribelli ad ogni sia pur tenue legame col comune senso del Bello. Tutto ciò ha finito per impoverire paurosamente il significato dell'Arte, che non può non essere fondata sul sentimento, pur senza escludere la ragione, in un comune culto della Bellezza come simbolo della Verità, della Divinità, dello Spirito.

Certamente, sarebbe superficiale limitare l'analisi estetica e storica ad una contrapposizione netta tra due secoli, come se uno fosse la Perfezione, l'altro l'Imperfezione. Nella storia i fatti non seguono il ritmo del nostro calendario. Sarebbe pensiero dì ingenui scolaretti ritenere che, trascorsa la mezzanotte di un anno, le cose cambino completamente. Nella natura umana, come in quella biologica, vige fondamentalmente il principio della continuità, pur con accelerazioni, stasi e talvolta regressi, variazioni dovute alla dialettica, tipicamente umana, tra i rapporti causa-effetto e l'azione della volontà e della scelta, condizionate dai primi. Gli aspetti negativi, tipici del Novecento, non nascono all'alba del XX secolo, ma cominciano a svilupparsi come germi attivi già nella seconda metà dell'Ottocento, sia nelle teorie filosofiche, sia nel comportamento politico. Il mito tecnolatrico comincia a svilupparsi già nella seconda metà dell'Ottocento, ed è un frutto del Positivismo. Sarà proprio questo mito a minare le basi dell'Umanesimo della preesistente cultura e a far sentire di conseguenza, lentamente ma con crescita progressiva, i suoi effetti deleteri sulle concezioni estetiche e sulle tecniche artistiche. La coscienza di tale trasformazione, in certo senso involutiva e gravemente involutiva, è la premessa per un'esegèsi più accurata del problema estetico.

 

Appare necessario poi tornare a meditare sull'essenza del Bello, come qualcosa che sia fondato su princìpi precisi , non come una vaga entità relativa, indeterminata, quasi caotica. Se il Bello fosse un attributo privo di qualunque determinazione, come si è voluto ritenere nel Novecento, potremmo certo qualificare come arte qualunque prodotto umano, ma come potremmo distinguerla dalla non-arte o dall'anti-arte? Oggi, prima ancora che l'Arte, ci mancano una seria critica estetica ed una filosofia dell'Arte, premesse necessarie per la ricerca e la conquista di canoni estetici migliori, piuttosto che semplicemente nuovi. Per questo, riferendosi almeno all'arte dominante o più diffusa, quella esaltata dalla critica ufficiale e spesso finanziata dal potere politico, non vi sono significativi segni di miglioramento. Le teorie del primo Novecento, per quanto ridimensionate, fanno tuttora sentire i loro effetti negativi e distruttivi, e l'orizzonte appare ancora grigio ed amorfo. Veramente, potremmo concludere parafrasando il verso di Rossi: l'Arte oggi è "vedova di sé".

 

NOTE

 

NOTA TECNICA: le citazioni non sono integrali. I punti di sospensione, preceduti e seguiti da lineetta lunga, indicano le nostre interruzioni. Abbiamo saltato anche tutte le indicazioni, salvo il nome dei personaggi per ragioni di chiarezza, che servono da indicazione per i gesti o i toni dei personaggi, come si scrive nelle opere teatrali. I puntini senza segni indicano le sospensioni del testo, indicate dall'autore come pause nel discorso. Citazioni e riferimenti, all'interno di una nostra citazione, sono indicati da una virgoletta d'inizio e fine, in questo modo: '....'.

 

(1) Giovanni Mosca, "L'Abate di Staffarda", ed. Le Due Torri (Milano, 1945), pagg. 93 - 93. La commedia vera e propria, va da pag. 97 a pag. 183.

(2) La maggior parte del Secondo Atto fu pubblicato nell'antologia "Ottocento - Novecento" di Andrea Cavalli Dell'Ara, ed. Signorelli (Milano, 1959). Nella citata Antologia sono anche riportati brani dei "Racconti di Scuola" e "Piedi caldi e piedi freddi", una buffa descrizione della Scuola Allievi Ufficiali, frequentata dall'Autore.

 

 

Chi era Giovanni Mosca

 

Giovanni Mosca "grande dell'umorismo, un grande ingiustamente dimenticato" (Giulio Nascimbeni ) nasce a Roma nel 1908; dopo l'esame di abilitazione magistrale fu maestro elementare per cinque anni, sino al 1936; in seguito collaborò a numerosi periodici umoristici, tra cui il "Bertoldo", il cui primo numero vene pubblicato il 14 luglio 1936, e il cui caporedattore era Giovanni Guareschi.

Dopo le collaborazioni con il "Marc'Aurelio", Mosca lavora per il "Candido", di cui nel I945 fu direttore insieme a Guareschi. Ma la "campagna in favore della monarchia, dell' anticomunismo senza mezze misure, e la maggiore aggressività politica di Guareschi sembrava sovrastare Mosca che lasciò "Candido", diresse "Il Tempo di Milano" , poi il "Corriere dei piccoli", e cominciò a tenere la critica teatrale sul "Corriere d'informazione" e a scrivere articoli per il "Corriere della Sera". L'altro, memorabile Mosca fu quello della vignetta quotidiana sul "Corriere d'informazione", che era l'edizione pomeridiana del "Corriere della Sera" e che oggi non si pubblica più. Creò le figure umoristiche famose a quei tempi del cavalier Ambrogio Vìtali, del professor Celiomontanus, di Brunacci Bonamonti, di Bellotti Bon, del signor Ulderico. Scrisse testi teatrali, traduzioni dei classici Orazio e Luciano, e diversi libri di racconti, ironici e surreali.

Titolo 6
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