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HEIDEGGER, FOUCAULT: TRA BIOPOLITICA E TECNICA

 

di Giovanni Marcusa


 

Lo scopo principale di questo lavoro è di tracciare, dopo una sia pur cursoria introduzione alla problematiche sia pur molto distanti tra loro, del pensiero di Heidegger concernente la questione della tecnica e quella di Foucault sulla biopolitica, al fine di mostrare come vi sia un interessante parallelo tra i due pensatori e di come, da prospettive differenti ma complementari, essi cerchino nella questione della soggettività una possibile soluzione al problema politico da essi posto.

1) HEIDEGGER E LA QUESTIONE DELLA TECNICA

Si è soliti distinguere, e noi ci avvarremo di questa ipotesi interpretativa, tra un primo ed un secondo Heidegger ossia tra un Heidegger pre-kehre (svolta) ed un Heidegger post-kehre. La svolta compiuta da Heidegger si può così compendiare: se è vero che la storia del pensiero occidentale (e quindi della metafisica) è storia dell'oblio dell'essere, ove con questo termine si intende la problematica del rapporto tra l'essere inteso come ens-summum e trascendente e l'ente (ciò che si dà nel mondo, i suoi oggetti, siano essi concreti o astratti). In particolare per Heidegger l'oblio dell'essere risulta dall'appiattimento dell'essere sull'ente, tale per cui l'essere (il principio primo) è sempre pensato come una cosa, e ciò vale in tutta la storia della filosofia occidentale da Platone ed il suo mondo delle Idee fino a giungere a Nietzsche con la sua Volontà di Potenza. Una volta compresa una tale prospettiva diventa evidente come qui si innesti la problematica della tecnica: il fare calcolante e febbrile tipico del nostro tempo e del nostro mondo, riassunto dal nome di "tecnica" viene così ad essere il problema fondamentale del nichilismo. Infatti l'uomo pensa non più all'essere come trascendente, ma lo confonde con l'ente che è per sua natura immanente e quindi manipolabile indefinitamente dal fare umano. Si vede così che se l'essere è un ente, allora l'essere è ridotto a ciò che l'uomo può fare, dimenticandosi della sua trascendenza e diventando così nichilista poichè nella sua volontà di potenza l'uomo perde la sua origine ed il suo domandarsi originario circa il senso dell'essere ed anche della propria esistenza. Con il mondo della tecnica il mondo diviene un puro mezzo calcolabile e manipolabile del fare umano che però non ha alcun scopo, alcuna domanda di senso, che non sia quello dell'infinitamente potenziantesi dell'apparato tecnico stesso. Inoltre Heidegger ci avvisa che il fare tecnico pone il problema del destino dell'essere umano che, se in principio produce la tecnica come un suo strumento, infine ne viene assorbito completamente ed egli stesso diventa uno strumento, contravvenendo al principio etico kantiano che uole l'uomo sempre un fine e mai come un mezzo. Una volta compreso ciò si può vedere come Heidegger si ponga anche il problema di come uscire dal tecnonichilismo. Ed è qui che avviene la svolta. Per il primo Heidegger, quello del testo Essere e Tempo, si può uscire dal fare tecnico mediante la "cura", cioè mediante una vita "autentica" nel senso che l'umanità si deve riaprire al senso della trascendenza tipica della domanda originaria intorno al senso dell'essere. Responsabilità quindi dell'uomo nei confronti del suo operare. Differente prospettiva acquista Heidegger dopo la svolta e che lo porterà a considerare l'agire umano come interno all'oblio dell'essere e quindi al nichilismo, tale per cui l'uomo non giocherà più un ruolo fondamentale nella ricerca dell'essere trascendente perchè è l'essere stesso che si oblia a scapito dell'uomo. heidegger stesso sosterrà che l'essere si da all'uomo tramite l'ascolto del linguaggio di cui l'uomo è pastore ma non proprietario. Per dirla breve Heidegger arriverà a sostenere che soltanto un Dio ci può salvare e che qualsiasi fare umano sarà destinato allo scacco in quanto ricadente nell'oblio dell'essere nichilistico e squisitamente tecnico.

 

2) FOUCAULT E LA BIOPOLITICA

Da una prospettiva del tutto differente prenderà le mosse Michel Foucault. Il pensatore di Poitiers infatti non è inseribile nell'alveo di una storiografia filosofica, ma piuttosto egli è un pensatore sui generis. La prima domanda che ci dobbiamo fare quando parliamo di Foucault è quella inerente al che cosa lo tiene filosoficamente impegnato. Foucault parla di prigioni, di manicomi, della storia della sessualità, delle istituzioni religiose e di quelle noeliberali ecc...Viene di primo acchito da pensare che questi non siano argomenti filosofici, e si avrebbe ragione se non si trovasse quel filo conduttore interno a tutti questi argomenti ed a molti altri. Qual'è dunque questo filo conduttore? Risposta: è il potere. L'intera filosofia foucaultiana ruota attorno a questo concetto. Egli definisce il potere come la capacità di un'azione di influenzare un campo di azioni dell'altro. Questo vuol dire che il potere non è, come siamo soliti pensare, una cosa che o la sia ha o non la si ha. Il potere è una relazioni che è nelle mani di tutti ed al contempo non è nelle mani di nessuno. Il potere è in una circolazione continua. Il secondo punto da capire per poter comprendere Foucault è il suo metodo. Egli infatti parla delle istituzioni (manicomiali, carcerarie ecc...) proprio per capire come si è articolato il potere nel tempo e perchè abbia preso le forme che ha preso. Seguendo delle rigorossissime analisi storico-filologiche, Foucault articola il suo discorso sul potere sostenendo che esso ha sempre avuto la premura di "tenere a bada" tutte quelle forze, come il crimine o la follia, che risultano "pericolose" per il potere costituitosi e per la norma vigente. Allora le analisi foucaultiane insegnano che nella storia ci sono stati diversi modi in cui il potere è stato esercitato, come ad esempio quello della repressione, quello del disciplinamento, quello della repressione fino a giungere a quello della medicalizzazione e della liberalizzazione ecc...al fine di mostrare che ci troviamo sempre in una dinamica di potere. Il terzo ma non meno fondamentale punto da avere presente è il rapporto tra la soggettività ed il potere. La tesi di Foucault rovescia il paradigma classico che vede nella soggettività una sostanza e che i soggetti esercitino il potere quale strumento della loro volontà. Piuttosto è vero il contrario: è il potere che crea i soggetti. Se questo è vero allora tutto ciò che noi siamo, persino nel nostro intimo, è il prodotto delle relazioni che noi intratteniamo con gli altri e che ci costituiscono in una eterna trama di giochi di potere reciproci. Ed allora anche qui per Foucault, come per heidegger, si pone la domanda: come uscirne? Risposta: producendo una soggettività altra da quella che il potere costituisce.

3) PARALLELO HEIDEGGER FOUCAULT

Adesso che abbiamo visto quale sia la problematica di Heidegger inerente alla questione della tecnica e quella di Foucault sulla biopolitica, siamo arrivati al punto della nostra tesi circa il punto di tangenza tra il pensatore tedesco e quello francese, che mi sembra si possa rilevare nella questione del soggetto. Infatti, se si tiene presente la problematica della deiezione heideggeriana ai tempi dell'opera capitale di Essere e Tempo e quella dell'ultimo Foucault inerente la "cura di sè" è possibile sorgere il punto di convergenza dei due pensatori. In altre parole la questione del soggetto si profila in questo modo: se la tecnica e la biopolitica alienano il soggetto da sé stesso, la prima mediante l'esistenza inautentica del Si impersonale e la seconda mediante la produzione noeliberale di una soggettività producentesi mediante i rapporti ed i guìiochi di potere, allora una possibile via di fuga dalla gabbia d'acciaio (Weber) del soggetto sta nella autoproduzione di una soggettività alternativa a quella massificata dalla sempre più onnipervasiva società di stampo tecnocapitalistico. Ma che cosa vuol dire "autoproduzione di una soggettività?". Essa, ben lungi dall'esistere un modo unico di prodursi(che altrimenti continuerebbe a massificare il soggetto, come vuole una certa psicologia spicciola che vuole la felicità e l'autenticità nella realizzazione progressiva del proprio desiderio consumistico), si articola invece in una serie di pratiche soggettive dale per cui il soggetto entra in nuovi rapporti di potere che sfuggono al potere massificante. In tal senso ci può venire in aiuto da un lato la letteratura e dall'altro la psicoanalisi di orientamento lacaniano. La letteratura ci offre l'esempio paradigmatico nell'opera di Mendeville dal titolo "Bartleby lo scrivano", opera in cui il protagonista, Bartleby, ad un certo punto della sua esistenza si rende conto della alienazione insita nel suo lavoro e sceglie per un rifiuto radicale di questa stessa alienazione con un no che è semplice tanto quanto allarmante: la celebre frase "preferirei di no" indica per l'appunto questo rifiuto ad essere un soggetto-massa ed a porsi così un orizzonte di possibilità che sembravano non inscritte nel suo destino alienato. Alla maniera di Bartleby anche noi possiamo dire di no alle logiche del potere tutt'oggi egemoniche. Il secondo spunto, come dicevamo, può essere tratto dalla psicoanalisi lacaniana, in particolare attorno al plesso teorico inerente la questione del desiderio. Se, come precisa Lacan, il desiderio non è il desiderio di qualcosa che soddisfa i nostri bisogni, ma è "desiderio di desiderio", cioè un desiderio che altro non vuole che sé stesso in un continuo rilancio futuro e non saturabile dalla logica del discorso del capitalista(tale per cui è solo mediante la merce che il desiderio può essere soddisfatto), si viene altresì comprendendo come il soggetto sia responsabile del proprio desiderio e che lo pone in un margine di libertà che fa si che egli possa, con le grammatiche heideggeriane, scegliere autenticamente per la propria esistenza mediante la cura (Heidegger) del suo essere al mondo, mediante la cura di sè (Foucault) come nuova ed alternativa forma del potere. Si vede così come grazie alla psicoanalisi ed alla letteratura siano possibili delle pratiche di soggettivazione che sfuggono all'assoggettamento alla forma uomo-massa ed alle logiche del fare febbrile della tecnica ed a quelle dei giochi di potere (in particolare quelli neoliberali).

4) CONCLUSIONI

Mi piacerebbe, in questo frangente, operare una riflessione sul ruolo della filosofia e del suo rapporto con la politica. Il pensiero onnipervasivo e dilagante fa della filosofia un sapere astratto, avulso dalla realtà e produce la visione del filosofo come soggetto incantato nelle sue riflessioni fantasmagoriche e chiuso nella sua torre d'avorio da cui osserva il mondo con occhio imparziale. Contro questa vetusta e ristretta visione della filosofia si è cercato qui di mostrare, in particolare con l'analitica del potere foucaultiana e la questione della tecnica heideggeriana, come la filosofia sia tutt'altro che avulsa dalla realtà. Essa non è, al giorno d'oggi e per lo meno in certi frangenti, dimentica dell'undicesima tesi su feuerbach di marxiana memoria e che vuole la filosofia ed il ruolo del filosofo come non colui che interpreta il mondo, ma come colui che altresì lo trasforma. Ed è su questo punto non banalizzante della filosofia che si innesta il pensiero politico. Infatti anche la politica, se non vuole essere un mero strumento dell'apparato tecnico e ridursi così alla mera amministrazione inflessibile e burocratica, ha bisogno più che mai della riflessione filosofica, se non altro per diventare più consapevole del proprio agire di cui ne va del destino di ognuno, per non dire dell'umanità intera.

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