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Il melodramma oggi
( a proposito di Verdi...)
a cura di Tito Del Bianco
L'arte di Giuseppe Verdi si affida a peculiarità e valori a cui si contrappongono oggi tendenze spersonalizzatrici e mutilanti la natura umana, mode pseudoculturali che contestano la grande tradizione, senza peraltro fornire alternative o percorsi evolutivi altrettanto validi.
La coscienza estetica del melodramma (poesia della musica e musica della poesia) - pur nella sua connotazione di forma decisamente più popolare rispetto alla 'musica pura' - deriva comunque da una ricerca etico-spirituale. Anche nell'opera verdiana, al di là della convenzionalità dello stile e del genere, è concessa a chi ascolta, la contemplazione della verità spirituale che essa sottende. Questa appare oggi diafana e pallida come un fantasma, che tuttavia si rende visibile quando la musica sale dal golfo mistico per trionfare nel canto dei cori o dei solisti , quando l'onda prodigiosa dell'espressione melodica apre la vista alla dimora dell'Arte dove lo spirito crea dimensioni felici ed eterne. L'opera lirica riesce così ad avvicinare l'espressione della parola e del canto alla preghiera e all'invocazione, la lingua vi ritrova il suo stato originale, si eleva in una salmodia al di là della comunicazione e si schiude alla Conoscenza.
Nel secolo scorso la musica verdiana costituiva l'arte popolare. Verdi era un uomo del popolo, legato alla gente comune. Se il vetturino fischiettava l'aria del Rigoletto, allora era sicuro che l'opera era giusta. Essa apriva a tutti un mondo ricchissimo di sentimenti, di passioni, di conflitti eticamente marcati.
Ma soprattutto offriva dei punti fermi: entrava come un pugnale affilato nelle carni putride della corruzione e dell'ipocrisia, esaltava i sentimenti nobili e gli atti di coraggio, condivideva una purezza di sentimenti che noi, un secolo dopo, abbiamo irriso, o ci vergogneremmo di possedere. I volgari e insostenibili clichè marxisti sull'arte borghese da un lato, e l'esaurimento spirituale del mondo occidentale dall'altro, hanno provocato nel nostro Novecento la decadenza di tutte le arti e, in questo paesaggio desolato, la morte dell'opera lirica.
Nel nostro secolo la musica verdiana, come tutta la grande lirica, non fa più parte del patrimonio culturale e spirituale dell'individuo medio, non è più popolare. Non potrebbe esserlo; se lo fosse, sarebbe in antitesi a quei bisogni repressivi e regressivi che la società impone agli individui attraverso la persuasione di pubblicità e di mode di tutti i tipi e oggi anche attraverso le 'nuove arti' o certa arte contemporanea.
Uccidendo il Canto - e anche la conoscenza e il corretto insegnamento della tecnica di quest'arte nelle nostre accademie e conservatori - spegne nell'uomo una cospicua parte della sua naturale inclinazione al sentimento e all'amore.
La lirica non serve più perchè è l’anima ad essere diventata superflua ( anzi, si sostiene che l’uomo ne sia privo).
La robotizzazione e la meccanizzazione a cui è sottoposta la fisionomia umana hanno distrutto nell’emissione della voce cantata la modulazione armonica ed equilibrata. Ad essa si è sostituito l'assordante rombo ritmato delle discoteche e delle autoradio, l'urlo e lo strepito delle musiche demenziali. Il canto è stato ormai sostituito da un grido disarticolato.
Un'espressione disumanizzante e orrida si è concretata e imposta quale "musica" nelle menti delle nuove generazioni. In essa, tra grida e tonfi, prevale la bestemmia e il turpiloquio, il facile indottrinamento e una diabolica persuasione verso la distruzione dell'essere umano.
In questo trionfo della decomposizione e dell'imbestialimento la lirica viene per lo più presentata nei suoi risvolti di 'business': come pretesto di evento mondano per l'élite oppure in versione "semplificata" per le grandi masse. In un tale scenario, si rivela per lo più controproducente e dettata da una sensibilità deviata, l'azione dei cosidetti melomani e dei sodalizi di sedicenti appassionati della lirica.
La ‘congiura’ attuata oggigiorno contro tutta la grande musica si e' insinuata attraverso le mode, che hanno assunto, in Occidente , la funzione svolta, nei regimi totalitari, dalla censura. Scriveva Solgenitsin :
"L'Occidente, che non ha una censura, opera tuttavia una selezione puntigliosa, separando le idee alla moda da quelle che non lo sono; e, benchè queste ultime non cadano sotto la mannaia di alcun divieto, non possono esprimersi veramente nè nella stampa periodica, nè mediante il libro, nè mediante l'insegnamento universitario. Lo spirito dei vostri ricercatori è, sì, libero, giuridicamente, ma è investito da ogni lato dalla moda (...)" (1)
L'opera lirica - decisamente fuori moda - giace , obsoleta e ridicolizzata, tra intellettuali che la deridono e ne danno giudizi sprezzanti e una musicologia sterile che non la promuove come vero ed autentico elemento di cultura. Sono molti gli intellettuali a schierarsi contro 'l'ovvietà' del melodramma, contro l'idea che il melodramma ottocentesco non debba morire mai e sono in tanti ad accogliere con un sospiro di sollievo i segnali dell'ormai imminente definitivo tramonto di questo genere musicale.
Si applaude al suo declino senza risparmio, in nome di 'giuste rivendicazioni', contro una 'cadaverica retorica', opponendosi ad un presunto 'obbligo di cultura imposto d'autorità' e irridendo le sue 'idealità per anime belle'. Si parla di 'fruibilità' dell'arte, e in nome della libertà si è ridotta la musica a fenomeno consumistico, assolutamente autoreferente , che si acquista , si usa e si disperde , a seconda delle mode e degli umori, rifiutando a priori la comprensione della distinzione strutturale, concettuale ed estetica esistente tra un'opera d'arte e una canzonetta.
Ci si rivolge ad 'altri' generi musicali pensando che si tratti di una 'evoluzione', ma in realtà il Novecento ha assistito non ad un'evoluzione verso altri generi eventualmente più consoni ed elevati, ma all'involuzione e al declino delle arti, prima fra tutte la musica.
Solgenitsin aveva ravvisato nel declino delle arti non solo lo specchio della povertà spirituale di una civiltà, ma anche l'avvertimento sintomatico che la storia rivolge ad una società che è minacciata o peritura, sottolineando la natura del vero compito affidato all'uomo:
(...) il suo compito su questa terra non ne diventa che più spirituale : non un rimpinzarsi di quotidianità , non la ricerca dei migliori mezzi di acquisto ,poi di gioiosa spesa dei beni materiali, ma il compimento di un duro e permanente dovere, in modo che tutto il cammino della nostra vita diventi /'esperienza di una elevazione soprattutto spirituale : lasciare questa vita come creature più elevate di quanto non vi siamo entrati. (...) Nessuno,sulla Terra, ha altra via d'uscita che quella di andare sempre più in alto." (2)
Si delineò così il paesaggio italiano del secondo dopoguerra: contrassegnato da un progressivo sgretolamento e avvilimento dell'arte lirica, attuati con discernimento, in un paese che sembra destinato, sotto questo profilo, a scomparire di fronte ad altre potenze culturali del mondo.
L'opera di Verdi che più di tutte rappresentava la nazione italiana, che propugnava i valori morali tipici del romanticismo e oggi improponibili senza rischiare la derisione o la facile ironia (Dio, patria. famiglia, onore, lealtà, etc...), che rispecchiava il suo forte carattere nell'irruenza e nella generosità, vede le sue istanze calpestate e piegate sotto il giogo della degenerazione, soggette a scelte politiche che la trascinano all'oblio o rischiano di fame un patetico fenomeno da baraccone. La ‘moda’ in voga, però, non ci permette nè lo sdegno nè la difesa.
Già negli anni Trenta Bruno Barilli aveva messo in luce questo progressivo sgretolamento nell'opera verdiana, che appare sul piano tecnico-musicale dell'esecuzione, ma che in realtà nasconde una crisi più complessa, che va ben al di là dell'aspetto musicale: "Ci sembra che tutta una miracolosa razza teatrale si sia spenta con lui sul finire del secolo scorso. Nelle generazioni successive, rimescolate e confuse frettolosamente dalla politica, dalla guerra e dalla così detta cultura economica non ritroviamo più traccia di quel che fu l'affanno lirico, l'idolatria romanzesca e musicale degli italiani dell'ottocento; si direbbe che i legami di sangue, le affinità di temperamento e di sentimento che dovrebbero unirci al passato siano scaduti e dimenticati per sempre. (...)
Dopo Verdi il teatro lirico italiano, decaduto, tradito e vilipeso ogni giorno di dentro e di fuori, va alla deriva e scompare umilmente come un annegato.
La clientela aggressiva e demagogica dei politicanti ha guastato il chiuso e storico giardino italiano e ha tratto in rovina anche questo istituto nativo carico di carattere, che, coronato di gloria, una volta, e investito di un vero potere temporale, par divenuto oggi un terrapieno sconvolto per costruzioni edilizie.
Oggi la molla magica è spezzata e gli spiriti son fuggiti."(3)
(1) Aleksandr Solgenitsin - Discorso di Harvard – 1978
(2) Ibidem
(3) Bruno Barilli “Il sorcio nel violino” Einaudi,Torino,1982,pagg. 70-71