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LE FORME ESTETICHE DEL DIBATTITO FORENSE

IN QUINTILIANO

 

di Manlio Tummolo

 

 

Ottavo Saggio per una Storia delle Teorie Estetiche

(Bertiolo - Udine, febbraio - marzo 2020)

Parte seconda

DAL LIBRO III

 

Introduce il terzo Libro dicendo che l’argomento sarà meno piacevole, più ricco dell’amaro assenzio, dato dai medici ai bambini, che non del miele con cui coprono il bordo, per rendere il farmaco meno spiacevole. L’argomento del Capitolo I è quello degli scrittori di arte retorica, fin dall’età greca più antica: qui sarebbe inutile citarli trattandosi poco più di un elenco. Di Cicerone, il suo modello, dice :

“ … 20. Ma splendore particolare tanto all’eloquenza pratica quanto alla sua precettistica teorica lo diede Marco Tullio, unico esempio, presso di noi, di oratore e di insegnante di arte oratoria, dopo il quale sarebbe grande segno di buon senso tacere, se non definisse egli stesso i suoi libri di retorica dei peccati di gioventù, e non avesse consapevolmente omesso, nelle opere posteriori sull’oratoria, questi argomenti minori, di cui generalmente si sente la mancanza…” [24] .

Conclude il Capitolo dicendo di non aver sostenuto fanaticamente nessuno, ma di aver esaminato tutti gli autori sull’argomento, lasciando al lettore la scelta: per sé cerca il merito non di un ingegno originale, ma la precisione delle testimonianze. Nel Capitolo III affronta la divisione della Retorica in cinque parti, secondo la classificazione data da Aristotele, ovvero l’individuazione degli argomenti, la disposizione, l’elocuzione, la memoria e la pronuncia. Tutto ciò richiede un’esposizione elegante, tanto nella voce, quanto nei gesti. Passa poi nel Capitolo IV a questioni ancora più specifiche sul piano tecnico dell’oratore forense, ovvero i generi di cause, argomenti che sono estranei ad un tema estetico, quale voglio trattare [25] .

Nel Capitolo V affronta ciò che deve caratterizzare la capacità oratoria :

“ 1. Ogni discorso consta o di elementi che vengono significati o di elementi che significano, vale a dire di contenuti e di parole. La capacità oratoria si realizza mediante il talento naturale, l’arte e l’esercizio; a tutto ciò, alcuni aggiungono un quarto mezzo, l’imitazione, che noi facciamo rientrare nell’arte. 2. Parimenti, sono tre gli esiti che l’oratore dovrebbe garantire: informare, commuovere e divertire. In verità, questa partizione è più chiara di quella di coloro che dividono l’intera oratoria in fatti e sentimenti, poiché non sempre entrambi rientreranno nella materia che verrà trattata, e vi saranno soggetti che nulla avranno a che fare con i sentimenti…” [26].

Seguono trattazioni tecniche, ma nel Capitolo VIII presenta anche considerazioni interessanti sull’analogia tra oratore ed attore: in effetti, può esserci una certa affinità nel senso che ambedue recitano, tuttavia il primo recita sempre una stessa parte, la propria, mentre l’attore è tanto più grande quanto più sarà recitare parti diverse :

“ 49. Così, le prosopopee mi paiono di gran lunga il genere più difficile, poiché in esse alla restante fatica della suasoria [l’orazione che mira a convincere chi ascolta] s’aggiunge anche la difficoltà di riprodurre il carattere: presumo infatti che il medesimo consiglio Cesare lo darà in un modo, Cicerone in un altro, Catone in un altro ancora. Si tratta però di un esercizio davvero utile, sia perché prevede un duplice impegno, sia perché giova moltissimo anche ai poeti e ai futuri scrittori di storia; ma poi è indispensabile agli oratori stessi…

…………..

51. L’orazione infatti non è meno difettosa se discorda dal personaggio, piuttosto che dal tema cui si sarebbe dovuta accordare. Perciò si ritiene che Lisia [celebre oratore greco] abbia fatto benissimo a restare fedele alla realtà… per clienti non colti.

In effetti, devono considerare che cosa s’attagli a ogni persona soprattutto i declamatori, poiché ben raramente pronunciano le loro controversie come avvocati; generalmente essi diventano figli, padri, ricchi, vecchi, acidi, miti, avari…, così che a stento gli attori di commedie devono assumere più atteggiamenti nel recitare di quanti ne assumano costoro nel declamare. 52. Tutti aspetti che possono parere propri della prosopopea, genere che io ho subordinato alle suasorie… 53. Non ignoro… che, generalmente per esercizio, vengono proposte anche controversie poetiche e storiche… le parole di Priamo presso Achille o di Silla che in assemblea rinuncia alla dittatura… “ [27].

Questa capacità “camaleontica” di adattarsi a personaggi e condizioni diverse si sta perdendo negli ultimi decenni: spesso si recita come se si stesse leggendo la lista della spesa (da farsi in un Discount), oppure si calca troppo l’enfasi dove il tono dovrebbe essere calmo e freddo. Quintiliano ci insegna che è bene saper adeguarsi a ciò che si rappresenta. Sconsiglia chi recita o pronuncia un discorso a mettersi a strillare fin dall’inizio: occorre esordire in modo civile ed educato. Citando, più avanti, Cicerone, ricorda che il discorso dev’essere semplice, posato, e trarre la propria bellezza più dai pensieri che dalle parole (tuttavia, molto spesso Cicerone fu tutt’altro che “posato”, quando doveva accusare qualcuno). Ed ancora, un consiglio tuttora, e ancor di più, valido oggi: evitare gli insulti a chi dissente da noi. Basti seguire un po’ INTERNET o certi programmi radiotelevisivi per constatare quanto utile e giusto sarebbe applicare sempre un tale consiglio: una cosa è l’animazione del discorso, spesso elevata nel tono, ben altra l’offesa personale. Ci si può accalorare sulle tesi in dibattito, ma mai disprezzare l’interlocutore, in quanto persona. Seguono ulteriori problemi tecnici processuali, che qui non interessano .

DAL LIBRO IV

Dopo aver fatto una premessa, rivolta sempre a Marcello Vitorio, su certe critiche generiche da lui ricevute, e dopo aver ricordato l’uso dei poeti di invocare le Muse, Quintiliano prega a sua volta gli dèi per assisterlo nel proprio lavoro. Ora in questo Libro, egli si propone di spiegare l’ordine delle cause giudiziali, ovvero il compito dell’esordio, il criterio dell’esposizione dei fatti, la credibilità delle argomentazioni probatorie, sia proprie (e quindi a favore), sia altrui (confutandole), quanta forza richiede la perorazione (come ricapitolazione e sollecitazione dei sentimenti). Segue quindi, in capitoli distinti, l’esame di ciascuna fase del dibattito, partendo dalla definizione concettuale ed etimologica dell’esordio (o proemio, alla greca) che vorrebbe dire l’inizio di una gara musicale: questo non è privo di collegamento col tema estetico, proprio per il riferimento all’arte canora e musicale. Un esordio, come alla fine la perorazione, deve “commuovere” e sedurre l’animo dell’ascoltatore, in modo da attrarne l’interesse, se non la simpatia:

“ I. … 5. L’esordio non si giustifica che con il fine di preparare l’ascoltatore a esser meglio disposto verso di noi… questo si ottiene soprattutto in tre modi, rendendolo cioè benevolo, attento e docile, non perché a simili effetti non si debba badare per tutta la causa, ma perché essi sono necessari soprattutto all’inizio, quando si viene ammessi nell’animo del giudice per poter procedere oltre…

7. Perché, per quanto egli [l’oratore] parli di sé davvero poco e senza alcun enfasi, conta moltissimo… se ha fama di uomo giusto… 8. Ma come l’autorità dell’oratore sarà particolare se il suo essersi fatto carico della causa rimarrà scevro da qualsiasi sospetto di grettezza, odio o ambizione, così, d’altro canto una sorta di tacita raccomandazione presso i giudici si otterrà anche definendosi insicuri, inesperti, impari all’ingegno degli avversari… 9. E’ infatti naturale provare simpatia per chi versa in difficoltà, e un giudice coscienzioso ascolta ben volentieri un avvocato da chi non ha nulla da temere… Di lì veniva quello sforzo degli antichi di dissimulare la loro eloquenza, sforzo tanto lontano dall’ostentazione che regna ai nostri tempi …“ [28] .

Attenzione: Quintiliano sostiene che l’oratore, come attore della propria parte, svolge una recita, in cui proclama la propria fragilità, piuttosto che la propria abilità (ma se questa è già nota, a che serve ?): consiglia quindi, non la decantata humilitas cristiana, un certo grado di modestia, il che è dato sempre dal rispetto per le controparti e per il giudice. Nondimeno, sappiamo che il suo modello preferito, perlomeno nei testi scritti riveduti comunque sulla base di appunti e di resoconti stenografici, Cicerone era tutt’altro che rispettoso delle controparti: né Verre, né i Catilinari, né Clodio (e sorella !), né Marco Antonio, furono affatto trattati con rispetto, ma anzi pesantemente insultati. E pure celebri Apologie, dei secoli successivi, come quelle di Apuleio, di Tertulliano, di Giustino, non furono propriamente tenere con l’avversario. Ma il docente di “scienza dell’educazione e del dibattito forense” (per usare termini moderni) esorta i propri allievi ad evitare offese, malignità, superbia, maldicenza. Ammirazione dichiarata verso il giudice (che è quello che giudicherà non solo le parti, ma anche i loro avvocati) e perlomeno rispetto verso i colleghi delle parti opposte, usando soprattutto per questi secondi una certa ipocrisia. Talvolta, soprattutto se attaccati, si può rispondere con pari e superiore aggressività, arrivando all’insulto. Del cliente difeso va segnalata la dignità o la debolezza. Viceversa, è lecito attaccare al massimo la persona dell’avversario, segnalandone o ingrandendone i difetti. Tutto ciò, evidentemente, deve manifestarsi con naturalezza, in modo che il discorso appaia sempre sincero e risulti convincente: anche l’ironìa non deve svelarsi come tale, ma mantenersi ambigua, non trasformarsi in aperto sarcasmo o satira: la difesa non dovrà essere troppo soggettivistica, l’accusa non dovrà sembrare calunniosa.

Riguardo al giudice, l’avvocato deve conoscerne il carattere, il temperamento, le effettive capacità, i meriti. Se si conoscono i legami del giudice con le parti opposte, sarà bene tenerne conto. Ma non basta: verso il giudice, l’oratore forense, che ne tema la faziosità, deve saper adottare, nei modi giusti, atteggiamenti e tattiche diverse, se necessario l’eventuale giudizio del popolo, un’eventuale richiesta di trasferimento ad altro giudice, o - più gravemente - l’intimidazione con accusa di essere corrotto (questa più efficace in un collegio giudicante). Si può giungere anche all’istanza di incriminazione del giudice [29]. Seguono poi considerazioni ancora più tecniche, che non è il caso qui di esaminare. Concludo così l’esame del Libro IV, e del primo volume dell’edizione BUR .

DAL LIBRO V

Il nostro docente di oratoria forense presenta nuovamente considerazioni di natura stilistica in una Prefazione, con cui affronta criticamente la funzione propria dell’oratore forense :

“1. Ci sono stati autori, per la verità anche famosi, ai quali l’unico compito dell’oratore è sembrato quello di informare; d’un lato ritenevano infatti che il ricorso ai sentimenti andasse lasciato fuori dalle sue mansioni per due motivi, e cioè perché ogni turbamento dell’animo rappresenterebbe un difetto, e poi perché non bisognerebbe allontanare il giudice dalla verità utilizzando compassione, influenza, ira e mezzi simili; dall’altro credevano non solo superfluo, ma addirittura poco virile per l’avvocato mirare al piacere dell’uditorio… 2. Ce ne sono stati di più, comunque, che pur non facendo senz’altro prescindere l’eloquenza da quelle funzioni, hanno tuttavia ritenuto ufficio proprio e specifico dell’oratore la conferma delle proprie argomentazioni e la confutazione di quelle proposte dalla parte avversa…” [30] .

In effetti, è interessante notare che la retorica, anche antica, non aveva poi quel carattere di pura seduzione stilistica ed estetica (come ci deriva dalla tradizione platonica e in larga parte seguita da pensatori e commentatori successivi), ma quella di metodologia di un discorso o di uno scritto, che poteva essere del tutto aderente ad una trattazione razionale, criticamente scientifica: insomma, contrariamente a quel che pensa un pubblico prevalente, ma mediocre, retorico non è necessariamente uno stile equivalente a pomposo o falso: può essere anche semplice e realistico, quando lo richieda la situazione .

Procedendo al Capitolo I del Libro V, Quintiliano approfondisce le questioni processuali trattando dei mezzi: come detto, non me ne occupo se non per un aspetto tuttora di grande attualità, quale l’uso della tortura, dai Romani del tempo e anteriormente riservata solo a stranieri e schiavi; più tardi si arrivò a usarla per tutti. Ne tratto in nota, perché nulla vi è di estetico, e tantomeno di etico [31] in questa procedura iniqua, irrazionale e mostruosa . Il nostro Autore procede poi ad altri mezzi di prova, documenti, giuramenti (dichiarazioni con giuramento), testimonianze personali, le prove di fatto (vesti insanguinate, lividi e lesioni varie), prove logiche. In questo Capitolo X, tra le molte questioni che affronta, fa questa interessante osservazione del rapporto tra cantante, suonatore e oratore, che mette in relazione due aspetti che sembrerebbero lontani, il musicale e l’oratorio :

“ 124. Prendiamo il canto: l’accompagnamento armonico degli strumenti a corda gli giova moltissimo; se però la mano del suonatore si muove troppo lentamente e aspetta che sia ben osservata e misurata la lunghezza delle corde al cui suono di volta in volta la voce deve unirsi, allora forse è meglio accontentarsi degli esiti del semplice cantare naturale; così la norma retorica dev’essere adattata a quel genere di precetti e - come la lira il canto - seguirli attentamente. 125. Attraverso molto esercizio bisogna ... raggiungere il seguente risultato: che come la mano di quegli artisti, anche mentre guardano ad altro, per la forza stessa dell’abitudine si porta sui suoni alti, bassi e medi, così la citata varietà e abbondanza di argomenti non rallenti affatto il pensiero dell’oratore, ma si offra quasi, e gli vada incontro… gli argomenti di prova seguano… lo sviluppo del discorso ” [32].

Procede ulteriormente con gli esempi, che potrebbero riguardare anche personaggi di opere letterarie (come Priamo, Achille, Oreste, Clitennestra, ecc.) e favole come quelle di Esopo, oppure similitudini, alla maniera di Omero, che presentano un carattere più letterario ed estetico rispetto ad eventi reali o storici. Tratta anche delle analogie e delle correlative contrapposizioni (ad es., non presenta uguale gravità che un padrone abbia rapporti sessuali con una schiava, e che la moglie ne abbia con uno schiavo: dottrina che, a noi e in tempi di pari opportunità, appare del tutto superata). Si arriva alle prove logiche, tra cui Quintiliano pone anche quelle che agiscono sui sentimenti, più idonee al metodo retorico che a quello dimostrativo-dialettico. In questo Capitolo (il XII), mi pare interessante citare alcune osservazioni, di carattere etico-sessuale, che smentiscono (come già in Seneca) la credenza che il mondo “pagano” apprezzasse all’unanimità certi costumi, poi condannati dal Cristianesimo. Certo, il costume era molto più tollerante, ma non tutti avrebbero condiviso l’attuale apologia di abitudini irragionevoli e innaturali :

“ 17. … le declamazioni, con le quali di solito ci esercitavamo alla battaglia del foro… già da tempo hanno perduto il loro autentico aspetto di orazioni; composte in vista del solo diletto, mancano di nerbo, mentre… la colpa dei declamatori non differisce da quella per cui i mercanti di schiavi - castrandoli - danno maggior grazia alla bellezza dei ragazzi. 18. Infatti, come quelli stimano poco eleganti forza, muscoli e soprattutto barba, ma poi anche gli altri attributi che la natura ha specificamente donato ai maschi, ed effeminano come rozzo quanto … sarebbe segno di forza, così noi copriamo con una sorta di tenero rivestimento stilistico la stessa, energica struttura dell’orazione, nonché quella sua capacità espressiva fatta di sintesi e vigore, mentre pensiamo che non importi nulla l’efficacia di ciò che diciamo: basta che sa elaborato e brillante. 19. Ma per me, che guardo alla natura, non esisterà un uomo meno bello di un evirato, né mai la Provvidenza mi parrà tanto ostile alla sua opera da farci trovare fra le sue creazioni migliori la menomazione; d’altronde, non riterrò che, grazie ad un intervento, si possa rendere bello ciò che, nascendo in quelle condizioni, sarebbe mostruoso. Il finto sesso degli effeminati serva pure al desiderio sfrenato: mai, però, la depravazione morale avrà un potere tale da rendere anche onesto ciò che ha magari reso costoso .

20. Quindi, il pubblico apprezzi pure l’attuale eloquenza vergognosa nella sua molle sensualità (…); io non riterrò esservi eloquenza laddove non venga esibito il pur minimo indizio di virilità e integrità, per non dire di serietà e purezza. 21. Invero, scultori e pittori celeberrimi, desiderando ritrarre con le loro arti corpi di assoluta bellezza, non caddero mai nell’errore di prendere come modello dell’opera un Bagoa o un Megabizo [celebri eunuchi nell’Impero Persiano]; ritennero invece esempi di bellezza… il celebre Doriforo - … - nonché i corpi anche di altri giovani militari e atleti [pensiamo ai celeberrimi Bronzi di Riace]; ora noi, che desideriamo plasmare un oratore, daremo all’eloquenza non armi ma cembali ?

22. Perciò, d’un lato l’adolescente oggetto della nostra istruzione si disponga quanto più può a imitare la realtà, e… già a scuola miri alla vittoria e sappia colpire i punti vitali altrui e proteggere i propri; dall’altro, il maestro esiga da lui soprattutto queste capacità…” [33] .

Com’è facile notare, Quintiliano accosta la questione etica dell’evirazione alla questione estetica, nella bruttura di ogni violazione della natura. Lo stesso vale nel discorso forense, che non deve essere debole, delicato, ma polemico, tale da raffigurarsi come una battaglia, ancorché verbale, pur sempre energica, virile, senza esclusione di colpi. E infatti al Capitolo XIII affronta la confutazione delle tesi e delle prove opposte. Con queste esposizioni di natura altamente tecnica, si conclude il Libro V .

DAL LIBRO VI

La prefazione stavolta comincia con l’annunzio a Marcello Vitorio della morte del proprio figlio [34], il che dà, secondo Quintiliano, non solo un enorme dolore, ma pure l’incapacità e il senso di inutilità dell’intera opera che sta scrivendo. Esprime quindi una fase di estrema amarezza che, tuttavia, saprà superare. Terminato il lungo lamento e la celebrazione del figlio esposta con dignità e con tristezza, egli passa alla perorazione (Capitolo I). La perorazione, come anticipato nell’elenco delle parti, è la parte conclusiva del dibattito, dove si invita il giudice, in forme più specificamente retoriche, ad assumere decisioni favorevoli a colui che sta parlando. Svolge anche un compendio della situazione e delle argomentazioni. Coglie anche l’occasione per citare alcuni esempi storici, come la conclusione contro Verre. Interessante anche il richiamo che egli fa di certe norme procedurali dei Greci, il che prova che non è molto esatta quella teoria storica secondo cui i Romani appresero filosofia, arte, letteratura dai Greci, ma che, in tema di Diritto, furono del tutto originali :

“ I. 7. Questo primo genere di epilogo è il solo riconosciuto dalla maggior parte degli Attici e da quasi tutti i filosofi che hanno… scritto sull’arte oratoria. Credo che gli Attici ebbero tale orientamento poiché in Atene addirittura l’ufficiale pubblico del tribunale vietava all’oratore di far leva sui sentimenti…” [35].

In effetti, anche se irrealistico, visto che allora non c’erano certo le metodologie scientifiche di oggi per provare rigorosamente le fasi e modalità di un delitto, per cui si potevano segnalare contraddizioni e insufficienze nelle testimonianze, o agire appunto sulla commozione del giudice e dell’eventuale giuria .

“ … Meno mi stupiscono i filosofi, presso i quali è considerato un difetto farsi prendere dall’emozione; a loro sembra moralmente inaccettabile che in tal modo il giudice venga distolto dal vero, e reputano indegno di un uomo onesto sfruttare delle debolezze. Comunque riconosceranno che il ricorso ai sentimenti è necessario quando per altra via non si possa far prevalere ciò che è vero, giusto e di comune utilità…” [36] .

L’utilizzo della commozione appare a Quintiliano necessario non col fine di imbrogliare sulla situazione e sulle circostanze, ma per segnalare, come allora possibile, la verità dei fatti. Difficile non obiettare che anche la controparte può agire con tale tattica, ma con un fine opposto. Non si può dire che il nostro Autore non ne sia cosciente: un’arte recitatoria, affine a quella degli attori (che più avanti osserverà), è arma a doppio taglio :

“ … 9. Esse generalmente si valgono anche dei medesimi sentimenti… L’accusa deve infatti eccitare i giudici, la difesa ammansirli. Talvolta però anche l’accusatore induce al pianto l’uditorio suscitando compassione verso colui che intende vendicare, così come talaltra l’accusato lamenta con particolare forza l’indegnità della calunnia, del complotto di cui è oggetto…” [37].

In sostanza, nella perorazione arte recitativa e tecnica giudiziaria in senso stretto finiscono per essere rotaie di un medesimo binario. Ciò fa scoprire che questo modo di condurre un processo non mira tanto alla razionale persuasione di un giudice o del pubblico che assiste, bensì ad ottenerne la faziosità. Ci si sforza quindi di calcare la mano quanto a narrazione dei fatti, a esagerarne o minimizzarne la gravità :

“ … 23. Moltissima efficacia ha comunque l’elemento patetico, che costringe il giudice non solo a cambiare idea, ma anche a confessare con le lacrime i moti del proprio animo. Questo risultato si raggiungerà raccontando o ciò che l’accusato ha patito, o ciò che… patisce, o ciò che lo aspetta in caso di condanna: effetti che si raddoppiano se diciamo da quale a quale condizione egli debba cadere…” [38].

Bisogna considerare e segnalare età, sesso, rapporti familiari. Qui cita ancora Cicerone, il suo modello preferito. Quintiliano aggiunge che sono utili le prosopopee, discorsi fittizi, in cui il difensore impersona la parte del proprio patrocinato, proprio al fine di suscitare emozioni, e anche qui ricorda le capacità degli attori professionisti [39]. Su questi giochi tuttavia, sostiene il nostro docente, non si deve insistere troppo, anche se poi arriva a descrivere scene che oggi non si potrebbero fare, come mostrare ferite nell’aula, abbracciare le ginocchia dei giudici, cose che, viceversa, allora dovevano essere frequenti [40]. Ancora, l’Autore sconsiglia un uso indiscriminato o poco attento di queste pantomime, onde non ottenere un effetto contrario a quello desiderato .

Ancora: ribadisce l’importanza dell’eloquenza proprio nella perorazione, che è conclusiva del dibattito:

“… 51… Nella perorazione, comunque, … è lecito aprire per intero le fonti dell’eloquenza. 52…. Possiamo sciogliere completamente le vele; inoltre, poiché l’amplificazione costituisce la parte maggiore dell’epilogo, è permesso utilizzarvi parole e pensieri splendidi e ricercati. Il teatro va commosso appunto quando si è giunti al momento in cui le antiche tragedie e commedie si chiudono, all’ ‘Applaudite’… “ [41]. E cita ancora il Cicerone contro Verre .

L’importanza dei sentimenti e del loro uso giudiziario viene ribadita al Capitolo II. Qui fa anche distinzione, secondo la tradizione greca, tra pathos (passione) ed ethos (carattere), mentre secondo Quintiliano non esistono equivalenti latini per i due concetti distinti che erroneamente si confondono coi termini mores e moralis. Pathos indicherebbe sentimenti scomposti, ethos sentimenti controllati, calmi; il secondo indicherebbe anche condizione durevole, il primo provvisoria. Su questo - dice l’Autore - non tutti concordano. Vi è anche un certo spazio per l’ironia, lo scherzo. L’ethos, per apparire credibile, dev’essere in bocca a persona di nota onestà. Il disonesto non appare mai convincente. Ancora più oltre cita l’Eneide di Virgilio, là dove si parla di Polissena, sacrificata dal figlio di Achille sulla tomba del padre. Sulla potenza dell’eloquenza, Quintiliano dice che perfino gli ignoranti possono manifestarla istintivamente, se hanno forza emotiva e sincerità di sentimenti. Necessita quindi, in chi parla, identificazione nella persona e negli eventi, soprattutto in caso di violenza, di terrore e di morte [42] .

Di non minor interesse (anzi, forse di più se si pensa che fu argomento poco trattato nell’antichità [43]), il tema del Capitolo III, ovvero il Riso (nella commedia, ma non solo) :

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