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LE FORME ESTETICHE DEL DIBATTITO FORENSE
IN QUINTILIANO
di Manlio Tummolo
Ottavo Saggio per una Storia delle Teorie Estetiche
(Bertiolo - Udine, febbraio - marzo 2020)
Parte quarta
perché lo scopo delle figure retoriche è quello di dilettare, e non di apparire stucchevoli. E giustamente nota :
“… [102] … L’eccessiva cura formale in casi del genere toglie credito agli affetti e, dovunque l’artificio è troppo scoperto, la verità par che sia assente “ [63] .
Il più interessante, in questo Libro, è il conclusivo Capitolo IV, dedicato alla composizione di testi di natura sia poetica, sia prosastica (discorsi forensi, politici, storici, biografici): la composizione riguarda, secondo Quintiliano (sulla scìa del suo modello Cicerone, ma anche in considerazione di suoi critici, quali Licinio Calvo, Bruto - l’uccisore di Cesare - , e altri tra cui Plinio il Vecchio), sia lo stile, sia la struttura dei periodi, sia (molto spazio vi dedica) i metri poetici più adatti secondo le occasioni. Quindi, anche qui il fattore estetico vero e proprio si intreccia con quello tecnico, segno, una volta di più, che raramente gli antichi seppero trattare autonomamente una teoria del Bello in sé, separatamente da tecniche retoriche .
Dopo essersi richiamato a Cicerone e ai suoi critici, Quintiliano esordisce :
“… [3] Io so bene che c’è chi non vuol sentire parlare affatto di cure relative alla composizione e sostiene che uno stile incolto e improvvisato sia ora più naturale, ora anche più virile. Ma se costoro dicono esser naturalissimo ciò che è venuto originariamente fuori dalla natura e nelle forme che precedettero la cultura, ne deriva che tutta la retorica viene completamente svuotata … [4] I primi uomini,in realtà, né parlavano secondo le accurate norme di cui noi fruiamo, né sapevano preparare l’uditorio con gli esordi, né informarlo con l’esposizione, né provare con l’argomentazione, né commuovere con gli affetti. Perciò essi mancarono di tutte queste cose, e non nella sola arte del comporre …” [64] .
Il nostro Autore, logicamente, sostiene che, come nell’agricoltura e negli allevamenti, abbiamo modificato l’ambiente zoologico e botanico, come nell’edilizia non ci limitiamo più a grotte o casupole e capanne per vivere, così anche nell’espressione scritta ed orale ci siamo affinati, onde esprimere e comunicare meglio i nostri sentimenti, di quanto si potesse fare in tempi più antichi e con usanze più primitive : “… [9] Per cui a me pare che i pensieri, tramite la composizione, siano tesi e velocemente spinti, come giavellotti e saette… E perciò tutte le persone più colte si sono convinte che la composizione vale moltissimo non solo a dilettare, ma anche a commuovere: [10] in primo luogo, perché negli affetti nulla può entrare, che inciampi subito nell’ orecchio …; poi, perché è dalla natura che siamo indotti a desiderare l’armonia. Né, infatti, altrimenti accadrebbe che anche i suoni degli strumenti musicali, sebbene non esprimano parole, suscitino, tuttavia, in chi ascolta sentimenti dell’animo diversi …” [65] .
Quintiliano, in campo musicale, segnala al § 11 che è diverso il tipo di musica adoperato nelle varie occasioni, come in sede di rito religioso oppure per segnalazioni militari, o - come faceva i Pitagorici - per singoli momenti della giornata. Più avanti sottolinea l’esigenza che anche la prosa abbia un suo ritmo ed una scorrevolezza armonici, ed anche qui richiama il modello ciceroniano. Lo stesso vale per scritti di natura storica, e qui si richiama ad Erodoto di cui elogia la grazia e la scorrevolezza del linguaggio. Procede ancora alle tassonomie e alle distinzioni, dà consigli sulla struttura della frase, consigli che vanno bene nel latino, ma difficili da applicare in italiano (come quello di mettere in fondo il verbo che regge l’intero significato della frase). Presenta alcuni esempi, oltre al solito Cicerone, Mecenate e Domizio Afro. Tratta poi del collegamento fra parole, incisi, membri e periodi: segnala la diversa accentazione delle parole e la diversa pronuncia delle vocali. Per un ascolto piacevole che non susciti noia, è necessario non ripetere in serie parole, nomi, o lettere sempre uguali (qui si permette di criticare perfino il suo “idolo” Cicerone per il verso auto-elogiativo “o fortunatam natam me consule Romam” [66]). Passa poi all’analisi dell’uso del ritmo sia dei versi poetici, sia nella stessa prosa: ambedue necessitano di una metrica speciale, diversa secondo le eccezioni. Per chi ci segue, e non conoscesse il latino o il greco, va ricordato che gli antichi avevano una metrica basata su accenti lunghi (più forti) ed accenti brevi, e non sul numero delle sillabe, come nella metrica medioevale, moderna e, in parte, contemporanea (a parte quella del Novecento, cosiddetta libera, ma che può presentare anche un certo ritmo). Che anche la prosa abbia un ritmo, dipende dalla volontà di facilitarne la memorizzazione. Non mi dilungo su questi aspetti, perché esulano dal tema estetico in senso proprio. Cito ancora sue considerazioni sulla ritmica della prosa, come risultato estetico (piacere nell’ascolto) :
“ [116] … Il giudizio migliore su questa [la collocazione delle parole nella prosa] lo dànno, poi, gli orecchi, che sentono le sonorità, avvertono le mancanze e sono colpiti dalle disuguaglianze, mentre sono carezzati dalle dolcezze e scossi dai ritmi impetuosi e gradiscono la composizione regolare, si rendono sùbito conto di ciò che è zoppicante e provano fastidio per le ridondanze e per gli eccessi. E perciò sono i competenti che giudicano la tecnica compositiva, ma anche i profani ne intendono il piacere …” [67] .
Più avanti, osserva anche il tono con cui si parla, con veemenza, per suscitare emozione, esprimendosi attraverso incisi e con ritmi aspri; il periodo più lungo va utilizzato negli esordi per mostrare sollecitudine, e per commuovere. Il giudice dev’essere informato bene del fatto, ma anche essere affascinato dalla bellezza del discorso che lo informa. Alcune cose devono suscitare mitezza, altre concitazione, altre dimostrare nobiltà, altre ancora eleganza o, al contrario, sobrietà. Per tutto questo, secondo Quintiliano, occorre regolare gli accenti, brevi o lunghi. I vari stati d’animo necessitano diverse tecniche di collocazione delle parole e delle frasi. Conclude il Libro IX, insistendo sulla “virilità” del discorso (intesa come serietà e sobrietà, non necessariamente come sesso di chi parla), evitando anche la cadenza monotona, nel parlare, che suscita noia e stanchezza, necessariamente da evitare in ogni modo .
DAL LIBRO X [68]
L’argomento complessivo del Libro X alcuni aspetti della personalità e del metodo che l’oratore, particolarmente forense, deve adottare, aspetti analizzati anche nel Libro XI. Il Capitolo I è quello forse più interessante, anche sul piano psicologico, perché tratta della facilità di parola, anche di quella naturale, e non professionalmente formata. Dev’esserci nella persona dell’oratore, per esserlo fino in fondo, una capacità naturale che i Greci chiamano exis [69], che è necessaria, ma non sufficiente: occorre che sia irrobustita da molto esercizio (specie in pubblico) e da una ricca cultura che noi diremmo umanistica, per non ridurci (come sta avvenendo - ahinoi !! - in questi ultimi decenni) alla ciarlataneria (caratterizzata dal parlare o scrivere tanto per dir poco, o nulla, oppure male), alle frasi stucchevoli, fatte e strafatte, a concettuzzi miserabili, tanto dominanti quanto logicamente carenti e fragili :
“ … 8. Ma noi che miriamo alla forza del parlare, non alla facilità del ciarlatano, dobbiamo preparare con discernimento l’abbondanza delle parole. E noi conseguiremo ciò leggendo ed ascoltando le cose migliori. Con questa attenzione infatti non solo noi conosceremo i nomi propri delle cose, ma quale vocabolo sia migliore in ogni luogo. 9. Eccezion fatta di poche che sono poco pulite, v’è posto infatti per quasi tutte le parole. Giacché anche per queste sono lodati… gli scrittori di giambi e della vecchia commedia [Aristofane, soprattutto]… Tutte le parole, eccettuate quelle delle quali ho detto [non solo volgari, ma oscene] sono ottime in qualche luogo; infatti v’è bisogno talvolta anche delle più basse e delle volgari, e quelle che sembrano sporche in una parte alquanto elegante, sono dette con proprietà quando l’argomento lo richiede …” [70] .
Pensiamo per l’occasione alla “trombetta” del diavolo nella Cantica dantesca, o più avanti al letame nel quale sono immersi gli adulatori e il brusco dialogo che Dante ha con il dannato Alessio Interminelli: ovviamente potrebbe sembrare che stoni in una “Commedia Divina”, e nondimeno Dante non fa che manifestare verbalmente il disprezzo, sia per la rozzezza del diavolo, sia per l’atteggiamento avuto in vita dall’Interminelli. Coloro poi che oggi si ritengono originali nell’uso di pestilenziali volgarità nella letteratura, possono qui, se non direttamente nei testi, che “nulla vi è di nuovo sotto il sole” , né in effetti può esservi dopo 3.000 o 4.000 anni di storia umana .
Importante, nel discorso, è la vivacità dello stesso che deve saper descrivere, con immagini e nel tono, una determinata situazione, specie se commovente, tragica o, viceversa, divertente. Ancora insiste sulla lettura accurata degli autori migliori, sia le orazioni forensi, sia tesi più generali, poemi o tragedie che siano. Nomina Demostene, Eschine, Servio Suplicio, Messalla, Asinio Pollione, Cassio (non il compagno di Bruto nella congiura contro Cesare e a Filippi, ma Cassio Labieno, oratore, critico feroce degli imperatori e della loro corte, tanto da essere condannato all’esilio per diffamazione, ma ammiratissimo dal pubblico), Domizio Afro, Teofrasto, Cicerone. Oltre che nell’oratoria e nella poesia, l’oratore potrà trovare modelli nella lettura degli storici e dei filosofi, specialmente stoici e socratici, per la formazione logica e dialettica. Anche per quanto riguarda l’antichità o la contemporaneità del linguaggio e degli Autori da imitare, Quintiliano ribadisce che non si deve essere unilaterali, concentrandosi sugli antichi o sui contemporanei, ma saper selezionare comunque gli scrittori migliori, a cominciare da Omero :
“… 46. … prenderemo l’inizio da Omero. Infatti questi… dette origine ed esempio a tutte le parti dell’eloquenza. Nessuno potrebbe superare costui per sublimità negli argomenti grandi e proprietà nei piccoli. Il medesimo è ricco e conciso, gradito e grave, degno di ammirazione sia per l’abbondanza, sia per la brevità; è il più famoso non solo per virtù poetica, ma anche per virtù oratoria…” [71] .
E nondimeno, il nostro Autore non considera poco apprezzabili successivi poeti e scrittori, tanto greci che romani. Sulla commedia antica, ad esempio, scrive :
“… 65. La commedia antica quasi e sola mantiene quella sincera grazia del parlare attico ed è di una libertà grandissima, ed è caratteristica nel perseguitare i vizi, ma ha moltissima forza anche nelle rimanenti parti, Infatti è elevata ed elegante e leggiadra, e non so se ve ne sia qualcuna … o che sia più simile agli oratori o più adatta a foggiare gli oratori. 66. Parecchi sono gli scrittori della vecchia commedia; tuttavia i più famosi Aristofane, Eupoli e Cratino…” [72] .
Se per l’oratoria è ottima la commedia, non certa minore è l’utilità della tragedia, di cui ricorda Eschine, Euripide, Sofocle. Ricorda Menandro che è il più importante commediografo della nuova commedia, ma anche autore - secondo Quintiliano - di orazioni giudiziarie, sotto lo pseudonimo di Carisio. Oltre a lui, ricorda pure Filemone .
Tra gli storici cita Tucidide, Erodoto, Teopompo, Filisto, Timagene, e altri minori. Senofonte, a suo parere, va considerato tra i filosofi, anche se oggi i suoi “Memorabili di Socrate” sembrano comunque di molto minor interesse rispetto ai dialoghi di Platone, nel descrivere il pensiero ed il metodo socratico, ma già Quintiliano dedica a quest’ultimo maggior rilievo per quantità e qualità :
“… 81. Chi potrebbe dubitare che Platone sia il più grande, sia per l’acutezza del discutere, sia del parlare, sia per una certa dote divina ed omerica, di quei filosofi, dai quali Marco Tullio ammette di aver ricavato moltissimo della sua eloquenza ? Egli infatti si eleva molto al di sopra dell’eloquenza che i Greci chiamano pedestre, sì che a me pare ispirato … dall’oracolo Delfico…” [73] .
Elogia poi Aristotele per dottrina, dolcezza e varietà di argomenti; Teofrasto per nitidezza del parlare, gli Stoici per il peso dato dalla morale (che, come si ribadirà nel Libro finale, Quintiliano approva ed apprezza, soprattutto per l’oratore come uomo onesto). Fa seguito poi con autori romani, di cui è in testa Virgilio, poi Macro, Lucrezio, Varrone Atacino, Ennio, Ovidio, Valerio Flacco, Lucano, Tibullo, Properzio, Gallo, Lucilio, Orazio, Terenzio Varrone (questo per ogni ramo culturale), Accio, Pacuvio, ed altri ancora. Elogia anche gli storici, tra cui Sallustio, Tito Livio e perfino Cremuzio Cordo (il precursore di Tacito) di cui vennero distrutti gli scritti, ma dei quali ai suoi tempi doveva essere rimasto non poco, visto che così ne scrive :
“ … 104. Vive tuttora ed orna la gloria del nostro tempo, un uomo degno della memoria dei secoli, che un giorno avrà fama… Ha degli amatori, e giustamente, la libertà di parola di Cremuzio, sebbene siano stati tolti i passi che gli aveva nuociuto aver scritto. Ma tu potresti trovare in gran quantità spiriti elevati ed arditi concetti anche in quei passi che restano…” [74] .
Per quanto riguarda l’oratoria romana, qui il nostro Autore ricorda in termini molto elogiativi il suo modello Cicerone che considera addirittura superiore a Demostene, che pure ritiene meritevole di uno studio mnemonico [75]. Per Quintiliano, Cicerone sintetizza nello stile non solo la forza di Demostene, ma anche la ricchezza di Platone e la piacevolezza di Isocrate. Poi ricorda Asinio Pollione e sostiene che Gaio Giulio Cesare avrebbe forse rivaleggiato con Cicerone se ne avesse esercitato la professione forense, e poi diversi altri. Seguono i filosofi, sempre con Cicerone in testa, segue inoltre Bruto (l’uccisore di Cesare). Interessante, in riferimento al mio saggio precedente (7°) su Seneca, quanto ne dice questo maestro di retorica ed oratoria forense:
“… 125. A bella posta… ho differito Seneca per la fama falsamente divulgata su di me per cui si è creduto che io lo condannassi e lo avessi anche in odio. Il che mi accadde, mentre mi sforzavo a ricondurre a un gusto più severo l’oratoria corrotta e snervata da ogni sorte di difetti. 126. Ma allora solo questo autore era per le mani dei giovani. Ed io per parte mia non tentavo assolutamente di gettarlo via dalle loro mani, ma non tolleravo che venisse anteposto ai migliori, che egli non aveva cessato di denigrare, poiché, consapevole seco stesso di uno stile diverso, disperava di poter piacere a quelli ai quali quelli piacessero [quasi un gioco di parole, che sembra rimproverare a Seneca una certa invidia letteraria e senso di inferiorità]. Ma più che imitarlo, lo amavano e tanto si allontanavano da lui quanto egli era decaduto dagli antichi. 127. Sarebbe infatti desiderabile divenire pari o almeno vicinissimi a quell’uomo. Ma piaceva per i soli difetti ed ognuno si rivolgeva ad imitare quelli che poteva; … Ma di lui d’altra parte i pregi furono molti e grandi, un ingegno facile e fecondo, moltissimo studio, molta conoscenza delle scienze, nella quale talvolta fu ingannato da quelli ai quali affidava alcune ricerche…” [76] .
Come si può verificare, una complessa valutazione quella che Quintiliano presenta ai suoi lettori verso Seneca: sicuramente non ne apprezza lo stile, l’uso di frasi spezzate (noi diremmo quasi sincopate), ne ammira la cultura anche se non scevra di errori, la combattività contro i vizi, le considerazioni morali, lo spirito critico. Ne apprezza una lettura criticamente selezionata, ma pure meritevole di essere compiuta, e con questa valutazione si conclude il primo Capitolo. Il secondo è destinato all’ Imitazione .
L’imitazione non dev’essere pedissequa, ma selettiva e critica. Occorre scegliere uno o alcuni autori che si ritengono migliori, prendendone la ricchezza dei vocaboli, la varietà d’immagini e l’ordine della materia: in tutte le attività, sostiene questo pedagogista ed educatore dell’arte forense, il primo avviamento degli studi è sempre imitativo, ma poi questa fase va superata, cercando poi di realizzare qualcosa di nuovo, così come in ogni altra attività umana, ovvero dare una propria impronta personale, sforzarsi ad un certo spirito agonistico, piuttosto che di ridursi alla mera copia di formule fisse. Inoltre, non è tanto imitabile il livello massimo di un grande autore, ma piuttosto quello medio, comune anche ad altri. In sostanza, si tratta di contemperare la propria personalità con quella del modello, in certo modo rivivendolo; saper poi adattare il tutto alle circostanze, ovvero quando occorre uno stile pacato, e quando aspro, concitato o dimesso .
“… 27. La imitazione… non sia solo di parole. La mente deve venire indirizzata a percepire quale sia stata la proprietà ed eleganza di tali autori nel trattare circostanze e persone, e quale discernimento abbiano avuto… [ottenere] il plauso popolare… che è nobilissimo quando viene spontaneamente, non quando viene ricercato…” [77] .
Certamente, non richiede scarso impegno, salvo doti del tutto eccezionali, ottenere tutto ciò, ma occorre lavorare ed esercitarsi il più possibile per conciliare le esigenze di un modello da seguire, ma non in modo meccanico ed artificioso, bensì vivo e personale. I Capitoli da 3 a 5 hanno carattere essenzialmente di modalità dello scrivere, di scarso interesse per la questione estetica, per cui procedo oltre. Il Capitolo VI è destinato alla riflessione, da farsi anche in ore notturne se necessario: questo elogio della riflessione o meditazione dimostra, una volta di più, che Quintiliano è tutt’altro che un rètore che si dedica alla ricerca di sole belle frasi con cui riempire un’orazione forense, ma un vero e profondo critico dell’intero sistema educativo e didattico per la professione forense (ma anche politica), visto che ritiene necessario un grande e vario lavoro preventivo per la successiva attività oratoria, che non può essere bell’e fatta, ma studiata prima in ogni aspetto, quindi riveduta, corretta e applicata poi sul momento. Di qui c’è un collegamento tra improvvisazione (nel senso che non si legge un discorso scritto - il che sarebbe declamazione - né studio puramente mnemonico in cui poi, per qualche interruzione si perderebbe il filo del discorso) e riflessione, che in certa misura e con adattamenti deve prepararla.
Nel Capitolo 7°, finale, del Libro X, affronta la questione dell’improvvisazione, che è la pratica necessaria e consueta in un’aula giudiziaria, sia per ribattere ad argomentazioni o fatti nuovi presentati dalle parti avversarie, sia per un caso del tutto nuovo, perché se è vero che ogni causa deve essere meditata prima del dibattito, con relativa preparazione delle prove (scritte e testimoniali), non sempre lo si può fare per un caso improvviso :
“… 3. Quale mai dottrina ammetterà che un oratore ignori tali difficili condizioni ? Che succederà quando dovrà replicare all’avversario ? Infatti, spesso le argomentazioni che abbiamo previsto e contro le quali abbiamo scritto una replica ci ingannano, e all’improvviso tutta la causa subisce un mutamento; e, come un nocchiero di fronte all’assalto delle tempeste, così, per la variazione delle cause, l’avvocato deve mutare sistema di argomentazione. 4. Che cosa, poi, giovano lo scrivere molto e il leggere molto, e i lunghi anni di studio, se rimane quella difficoltà che vi fu agli inizi ? Ammetterà che è riuscita vana ogni passata fatica colui che deve impegnarsi sempre nello stesso lavoro. Né io chiedo che preferisca parlare estemporaneamente, ma soltanto che ne sia capace…
5. Sia, innanzi tutto, ben chiara la linea da dare all’argomentazione… “ [78].
Il che è facile a dirsi, per nulla ad eseguirlo, in quanto occorre tenere in conto i fattori emotivi. “Parlare a braccio”, come si usa anche dire, in un’occasione gioiosa o serena è ben un conto, farlo in un’occasione drammatica, come un arresto per un grave delitto (poco rileva qui se l’imputato sia innocente del tutto o no, colpevole in tutto o no, complice attivo o passivo, ecc.), è tutt’altro: ma questo può darlo solo una lunga esperienza professionale .
Così prosegue Quintiliano :
“… 6. … gli oratori … non si guarderanno attorno né si lasceranno distrarre da pensieri estranei che possano presentarsi alla loro mente, né sconvolgeranno l’orazione in una congerie di incongruenze, saltando qua e là e non fermandosi mai su alcun punto…
E i precetti dati ora sono collegati con la teoria dell’oratoria, gli altri dipendono dalla individuale applicazione: quello, ad esempio, di doverci procurare un repertorio di ottime espressioni…, mentre il nostro stile deve formarsi attraverso una costante e meticolosa consuetudine di scrivere, così che anche certe nostre improvvisazioni rendano il colorito stilistico dell’autore; e dobbiamo, poi, dopo aver molto scritto, esercitarci anche a parlare. 8. La consuetudine e la pratica, infatti, sono determinanti nel creare l’abilità oratoria e, se questo esercizio viene interrotto anche per breve tempo, non solo perdiamo quella acquisita prontezza [un po’ esagerato qui], ma le stesse labbra rimangono inceppate… necessaria una certa agilità mentale … riflessione sicura e ordinata sia in anticipo pronta a servire alla nostra voce … 9. … tutto questo avendo cura della voce, della declamazione, del gesto [non lasciarsi mai vincere dall’emozione o dal nervosismo, sapersi controllare nell’interesse esclusivo del patrocinato] 10. Ché la nostra attività mentale deve avere una evidente precedenza e deve spingere avanti i concetti e, man mano che si esaurisce un argomento, se ne devono preparare altri [come farlo nell’improvvisazione ? Null’altro che tenendo conto delle argomentazioni opposte, che dobbiamo confutare: ma quanti avvocati sono capaci di questo ? Oggi esistono altri mezzi di prova, ma allora la capacità logico-confutatoria poteva essere quasi l’unica arma, per smontare discorsi e prove altrui, mettendo accusatori e testimoni in contraddizione tra loro e con se stessi: mirabile, nella sua semplicità e bellezza, l’esempio biblico di Daniele in difesa di Susanna]… nell’intento di procedere… se non vogliamo, fermandoci e balbettando, emettere brevi e smozzicate frasi a guisa di chi singhiozza…” [79] .
In effetti, da quanto afferma, e da quanto aggiunge poi, si direbbe che egli allude ad appunti o schemi (oggi si usa dire “scaletta”, vano gusto per i diminutivi inutili…), che è necessario verificare in successione già mentre si parla, e usa, per questa procedura, una terminologia greca (una volta di più si dimostra che il Diritto non è poi un’invenzione solo romana…): àlogon diatribén (mi scuso se la mia trascrizione non è del tutto corretta, non potendo rendere lo “spirito” sopra la “a”). Non procedere con ordine, senza gusto e ricchezza espressiva - sostiene il nostro grande docente - non è parlare, ma sbraitare, parole fluenti, tipiche anche - dice - di donnette che litigano. Deve esserci una vera ispirazione in chi parla, in modo da affascinare anche di più che col discorso scritto, o studiato a memoria, o comunque preparato. Ricorda che Cicerone diceva che in tal caso l’oratore è assistito da un dio.
“… Infatti - aggiunge Quintiliano - i profondi sentimenti e la vivida immaginazione dei fatti si muovono per un’incessante forza, mentre, talvolta, nell’indugio della penna, rallentano il loro vigore… 15. Bisogna … afferrare quelle fresche immagini delle cose… e che ho detto chiamarsi phantasìas, e tutto quello di cui abbiamo in animo di parlare, persone e questioni, e le speranze, e le paure devono essere presenti ai nostri occhi e divenire elementi dei nostri affetti, perché sono i sentimenti e la forza della immaginazione che ci fanno eloquenti. E perciò anche agli uomini indotti [ignoranti], ove siano agitati da una qualche passione, non vengono a mancare le parole… ” [80].
La forma scritta, per se stessa, costringe ad una certa pacatezza, sollecita un’autocorrezione, ma così perde quell’impeto, quella forza espressiva data dal sentimento nel vivo della propria manifestazione (ma vi sono anche scrittori capaci di mantenerlo, pur scrivendo, correggendo, limando, selezionando: si tratta di doti personali varie). Riguardo alle persone incolte o inesperte, spesso della loro rozza eloquenza si approfittano gli avversari con uno scopo opposto a quello di chi si illude di poter essere creduto. Ecco perché si prevede, ai nostri tempi, la facoltà di tacere.
A Quintiliano non sfugge in ogni caso la complessità delle condizioni nel dibattito giudiziario e perciò prevede che, pressoché in contemporanea col parlare, si meditino le cose da dire, ma con rapidità, una sorta di gioco della velocità tra il pensiero e l’eloquio. Più avanti dice che vi è perfino una pantomimica, oltre che una mimica delle mani e del viso, movimenti del corpo, come battere i piedi, o muoversi, quasi come il leone si prepara all’assalto. Solo l’abitudine di un esercizio quotidiano, del parlare in pubblico, - sostiene - può consentire queste abilità. Così, su questi temi, termina anche il decimo Libro .
DAL LIBRO XI
Riguarda ancora il metodo del discorso : nel Capitolo I, egli invita ad usare uno stile proporzionato alle questioni in discussione :
“ … 2. … Quale vantaggio, infatti, che le parole latine siano efficaci, e chiare… 3. se non sono in armonia con quelle convinzioni, cui vogliamo sia indirizzato e plasmato il giudice; se noi useremo uno stile elevato nelle piccole cause, modesto e prolisso nelle grandi, lieto nelle tristi, miti nelle aspre, minaccioso nelle suppliche, sommesso nelle cause vivaci, e, nelle serene, feroce e violento ?...” [81].
Un atteggiamento oggi veramente disatteso, quando si fa esattamente l’opposto di questo consiglio e si distorce tutto con strepiti striduli per nulla, mentre quando necessiterebbe lo sdegno severo, allora si tace oppure si fa una risatina tra l’imbarazzato e l’idiota. Più avanti, sottolinea un altro fatto importante in contrasto con certi luoghi comuni, allora e talvolta anche oggi, sulla precisa funzione della retorica, citando Lisia :
“ … 11. … risulta chiaro che non il fine di persuadere deve perseguire l’oratore, ma quello di parlare bene [ovvero, con buone intenzioni e buone motivazioni], quando, talvolta, persuadere non sia onorevole. 12. Non fu, questo atto, utile all’assoluzione, ma fu, cosa ben più importante, utile all’uomo… “ [82] .
Ciò avendo rilevato come, altro importante esempio, Socrate si sarebbe forse salvato con un atteggiamento accondiscendente verso i giudici, e per nulla critico, egli invece rispose duramente e sarcasticamente sia agli accusatori, sia agli stessi giudici, perdendo la vita, ma salvando la propria coscienza: un punto di vista altamente morale che dimostra la vicinanza di contenuto con Seneca, al di là della grande differenza di stile letterario. Procedendo, sconsiglia anche la falsa sicurezza o, meglio, sicumera nel vantare il successo per il proprio patrocinio, che suscita critica e disprezzo da parte dei giudici e degli ascoltatori: in sostanza una critica valida tuttora quando si usa una vergognosa auto-propaganda con slogans e le rifritte frasi fatte. In sostanza, va considerato il senso del limite e delle proporzioni in tutte le occasioni :
“… 46. Speciale considerazione esigono le circostanze e il luogo. Le circostanze sono ora tristi ora liete, ora facili, ora difficoltose, e ad esse deve adattarsi l’oratore… 47. … ogni caso esige un particolare stile oratorio: … non gli stessi si devono compiere nel foro e nella curia, nel campo, nel teatro, in casa; e molte cose che per natura non sono biasimevoli e anzi si rendono, talvolta, necessarie in occasioni diverse da quelle in cui siano ammesse, sono giudicate turpi. 48. E anche in questo abbiamo già detto, quanto maggiori siano lo splendore, e l’eleganza concessi all’oratoria epidittica, in quanto che fatta per il piacere degli ascoltatori, rispetto alle orazioni suasorie e alle giudiziarie, che si risolvono tutte nell’azione e nel dibattito… [e riferendosi a grandi processi penali] 49…. Non annullerebbero tutti questi elementi quel tono necessariamente agitato [con metafore e uso di neologismi ed arcaismi] in chi corra pericolo e non gli toglierebbero quell’aiuto della pietà cui proprio gli innocenti sono costretti a ricorrere ? 50. E forse qualcuno si lascerebbe commuovere dalla sorte di colui che vede gonfio, vanaglorioso, pomposo ciarlatano della propria eloquenza, in un momento tanto rischioso ?...” [84] .
Quanto oggi sarebbe utile ascoltare questo grande Maestro di oratoria, non solo giudiziaria, ma anche pubblica e politica: oggi queste semplici regole vengono completamente trascurate. Di grandissima attualità, su una grave violenza di natura sessuale, è l’osservazione sul pudore che deriva da dover denunciare uno stupro, non solo di una ragazza o donna, ma anche su ragazzi: un’altra prova di quanto l’antichità classica non era poi così tollerante verso le violenze carnali, così eterosessuali, come omosessuali, come certuni ritengono [85].
Si passa quindi al Capitolo II, che concerne la memoria, allora essenziale, e quasi vitale, nel discorso (oggi abbiamo molti più mezzi per documentare un avvenimento, e perciò di non grande rilevanza, e tuttavia non inutile per la spontaneità, almeno apparente, dell’improvvisazione): trattandosi di un argomento essenzialmente tecnico, specie sui “trucchi” mnemotecnici utili a chi ha poca memoria, ritengo di poterlo sorvolare. Più significativo per l’aspetto estetico è il Capitolo III , che esamina la “declamazione”, intesa come “modo di porgere “ e non solo in quanto parola, ma anche per la gestualità, che più o meno naturalmente accompagna il discorso, l’argomento. Tale gestualità, anche se studiata, deve comunque apparire spontanea, non preparata, non artificiosa, senza esagerazioni. Qualche dettaglio, di quanto scrive Quintiliano (persino sul modo di indossare la toga, la stoffa di cui è fatta), risulta per noi del tutto esagerato, ma dobbiamo sempre ricordare che ogni atto pubblicamente compiuto era allora, ma in parte lo è anche oggi, uno “spettacolo” che richiede regia e sceneggiatura, analogamente ad un’opera teatrale :
“ 1. L’eloquio viene detto ‘modo di porgere’ dai più, ma, se il primo nome sembra derivare il suo significato dalla voce, il secondo soprattutto, dal gesto… [dopo aver ricordato le valutazioni di Cicerone] … 2. … Nessuna prova, dunque,… sarà mai tanto salda da non perdere di forza se non trova conferma nel tono risoluto di chi parla. Ogni richiamo alla commozione mancherà ovviamente di effetto, se non si accende nella voce, nell’espressione del volto e nell’atteggiamento di tutto il corpo. 3. Ché, quando abbiamo fatto tutto questo, possiamo dirci fortunati, se comunichiamo al giudice il fuoco della nostra passione; e tanto meno mostrandoci lenti e tranquilli… e anche lui non potrebbe mai sottrarsi all’influenza del nostro sbadiglio. Offrono testimonianza a questa mia affermazione anche gli attori teatrali [si noti questo parallelo]; 4. I quali aggiungono una tale suggestione perfino ai migliori dei poeti che le loro opere ci piacciono infinitamente di più ascoltate che lette, e suscitano l’attenzione…” [86] .
Quintiliano sostiene, forse con una certa esagerazione (ma non dobbiamo dimenticare che i nostri sono diversi da quei tempi), che un discorso mediocre suscita più interesse di uno ottimo, se quest’ultimo sia privo di una giusta gestualità, e ricorda le osservazioni di Demostene :
“ … 6. Ché anche Demostene, interrogato quale fosse la cosa più importante in tutto il complesso dell’eloquenza, dette la palma all’esposizione, e ancora all’esposizione il secondo e il terzo posto… giudicava questa, non la più importante, ma l’unica virtù dell’oratore; e perciò egli si dedicò a questo sotto la guida dell’attore Andronico con tanta passione, da render giustificata la risposta data da Eschine ai Rodiesi, presi da ammirazione…: ‘E che cosa direste se aveste udito lui stesso ?’… “ [87] .
Ancora, Cicerone - secondo il nostro Autore - pensava elemento dominante il gesto, ricordando la gestualità di Lentulo e quella del pianto di Gaio Gracco, che commosse i Romani nel ricordo della triste morte del fratello Tiberio. Quintiliano poi discute sull’opinione di chi ritiene che l’oratoria debba essere del tutto istintiva, ma per lui naturalezza e studio devono armonizzarsi senza sopraffarsi. Dedica poi spazio alla voce e alla capacità polmonare, cosa che sembrerebbe riguardare il solo canto: invece è necessario avere l’uno e l’altro, respirare liberamente in modo da utilizzare anche le narici. La voce non deve essere esile, come quella di eunuchi e di donne (seppure quella delle donne, avendo alta tonalità, non può sempre considerarsi esile, come dimostrano le cantanti liriche: ma non pare che allora le donne cantassero pubblicamente). Aggiunge poi :